Cara signorina Santi, soltanto oggi ho potuto leggere la sua recensione riguardo al nostro lavoro "Il seme e la speranza", dopo mesi dalla sua pubblicazione apparsa su Rumore. Ne avevo sentito parlare durante il "giro" estivo su e giù per il paese da amici e conoscenti sempre imbarazzati e incazzati rispetto allo "stile" da lei usato in questa occasione, ma solo oggi ho potuto leggere direttamente questa sua "alzata d'ingegno", poiché negli ultimi mesi non ho seguito affatto quanto è stato pubblicato sulla stampa specializzata a proposito del nostro lavoro; come dire avevo altri cazzi... Quindi se fino ad ora signorina se l'è cavata, adesso è tempo che se la veda con me per questa sua bravata. La invito perciò a rileggere quella sua recensione (?) tanto per rivedere il tono e le parole da lei usate in proposito. Tutto ciò non mi adira o meglio non mi fa incazzare ma è per una questione di principio e di rispetto nei miei confronti e nei confronti del gruppo, di tutti quelli che hanno partecipato al progetto (che sono un centinaio di persone) e nei confronti del mio lavoro e della cultura alla quale esso appartiene che le dico cara signorina Santi che il suo è uno sputo non una recensione. Uno sputo però che gli ritorna in faccia poiché trova il vento contrario. Le dico subito che questo suo "stile" burino, arrogante e strafottente non se lo può permettere nei miei confronti. Assolutamente. Se gli altri sono disponibili a subirlo mi dispiace per loro, ma può stare più che certa che io non lo sono, questo suo tono non lo accetto proprio. Lei si merita una bella lezione di rispetto e di educazione per prima cosa, ma dovrebbe dargliela sua madre con un sonoro schiaffo come si fa coni bambini viziati e strafottenti; se non l'ha fatto ancora si vede che ha avuto altro da fare anziché insegnare l'educazione a sua figlia... Male molto male. Lei può sentirsi pure sicura e protetta dentro il suo "fortino" e accanto ai suoi "padrini" ma qui signorina siamo fuori dalle mura, in campo aperto, nell'Accampamento che precede l'Assedio. Qui sono altre le regole, i linguaggi, i principi, i valori, qui non ci si ripara dietro a nessuno e non si nasconde la propria ignoranza con uno stile alla Sgarbi e compagnia bella. Perchè, questa invece è una lezione che posso darle, lei signorina oltre che essere una povera stronza è assolutamente ignorante rispetto al ruolo che dice di rivestire, quello di recensore, per non dire di giornalista specializzato o di critico. Ma a lei chi ce l'ha messa lì dove sta? Come ci è arrivata? E comunque la sua ignoranza non scusa il suo atteggiamento né giustifica la sua arroganza. E visto che lei è proprio tonta mi permetto di aiutarla a fare meglio il suo lavoro per il quale spero che non ci sia uno tonto più di lei che la paga per ciò che scrive e per come lo scrive. Allora signorina Santi la informo innanzi tutto che c'è una scuola di critica culturale, una tradizione, un impianto critico fondamentale che storicamente passa per Alan Lomax (che non è un cartone animato...) per Carpitella e va fino all'Istituto De Martino, al Circolo Gianni Bosio, ai "Giorni Cantati" e se proprio vogliamo allungare la strada arriviamo al Buscadero e al Mucchio Selvaggio... E' sulla base di questa esperienza critica che il mio lavoro signorina va rapportato, criticato e analizzato al fine di dire se ciò che è stato fatto va nella direzione giusta oppure no, anche quando può entrare in conflitto con la "strada principale". Forse pensa che basterebbe tradurre di sana pianta qualche pagina di Sound o Melody Maker o peggio ancora Rolling Stones per incoronarsi critico musicale.? Lei signorina come può giudicare un mio lavoro? Sulla base di quali argomentazioni? Sulla base di quale Scuola di Critica Culturale? Lei quale metro usa? Quali sono i contorni o meglio la "cornice del quadro" che lei sta prendendo in esame? Lei non lo sa perché è ignorante e peggio ancora non lo ammette perché è arrogante e vanitosa. Ciò che non conosce la "disturba" e ciò le basta; ma lei non è semplicemente un'ascoltatrice, lei si permette di salire sulla cattedra del recensore (?). Scenda allora perchè non ho finito. O forse si sente un critico musicale per ispirazione? Ma questo riguarda chi è artista e non lei, lei dovrebbe essere preparata a giudicare ciò che ascolta e fornire ad altri i mezzi per decifrare per capire... Ma questo la "disturba" lo so signorina, lo so . Quindi lei è semplicemente una burina che si permette di prendere per il culo venticinque anni di storia di un gruppo che ha attraversato nel bene e nel male tante strade e l'ha fatto sempre con dignità e come se non bastasse, e questa è la cosa peggiore, lei prende per il culo anche la cultura popolare nostra che lei sbeffeggia con toni tipo "anonimi peruviani" o "canti del trecento"(?)... Lei è analfabeta rispetto alla storia dell'arte tutta e si permette di fare il "recensore". Lei non sa o forse non conosce il "Ritorno" teorizzato da Polibio e da Machiavelli e dai romantici?, lei non sa niente di Gramsci in "Americanismo e Fordismo"? Lei è a conoscenza della disputa fra critica e neofilismo a proposito dell'equivoco fra "reazione" e "rivoluzione"? E con lei allora che dovrei fare? Che dovrei dire oltre che mandarla affanculo? Dovrei ricominciare da Copernico e il suo rapporto con i greci? Oppure da Picasso e la scultura africana? Da Dante e Joyce e del rapporto che intercorre fra questi? Oppure potremmo rivedere insieme le caratteristiche identificative della cultura popolare: il sincretismo, l'eternità anziché l'universalità, il "quilt"... Come vede signorina Lei dovrebbe ricominciare dalle elementari che non ha fatto pur spacciandosi per laureata... Addirittura la infastidiscono "i canti del trecento"(?) e gli "anonimi peruviani". Le confesso signorina Santi che in venticinque anni non avevo mai incontrato una come lei, ne avevo viste e sentite tante ma un "begonzo" come lei no, non l'avevo incontrato. Come? Lei non sa cos'è un "begonzo"? Si dice da noi di una persona vuota ma che dovrebbe per ruolo e funzione essere piena. Il begonzo era un contenitore di legno dove si metteva la farina o la semola. Ma nelle case della povera gente il begonzo era quasi sempre vuoto; così è nata questa similitudine, dai poveri da chi aveva il begonzo vuoto. Non si offenda signorina Santi ma lei è un vero e proprio "BEGONZO!" della critica musicale italiana. Vede quante cose avrebbe potuto imparare se avesse ascoltato bene "Il seme e la speranza" eppure lei ha scritto che è un lavoro inutile. Avrebbe potuto cogliere l'occasione che quei "canti del trecento" e quegli "anonimi peruviani" le avevano offerto e invece è talmente tanta la sua boria, la sua vanità e la sua arroganza che l'hanno resa più che cieca sorda e ignorante. L'ignoranza se riconosciuta è una dote ma questa appartiene alle persone umili, belle, cosa che lei non è. Mi è piaciuto un suo passaggio quello del "cielo asfittico e stantio"; qui rasenta la prosa, è quasi un tocco di poesia. Quanto alla musica ferma a 35 anni fa mi permetta una precisazione: qui si è sbagliata di grosso perchè a tutti coloro che hanno collaborato al disco ho raccomandato sempre un sound vicino al 1964-65 quindi siamo a 41-42 anni fa. Ho capito anche che ciò che l'ha disturbata e molto, è stato il nostro desiderio di condividere questo lavoro con la carta stampata. Perchè no? scusi, potrei mandarle qualche chilo di carta stampata dove i suoi colleghi (chiedo scusa a tutti) parlano di questo disco in tutti altri toni, e allora perchè non sottoporlo alla critica un lavoro del genere? Lei è l'unica a sentirsi "disturbata". Poi chi glielo ha ordinato il dottore di "recensire" un nostro disco? Perchè l'ha fatto se ciò l'ha "disturbata"? Per guadagnarsi due euro in più? Mi dica signorina... Capisce quanto è ridicola lei e la sua recensione? Capisce in che casino si è ficcata? O no? Può stare certa che ogni volta che non avrò di meglio da fare mi andrò a prendere una copia di Rumore e la leggerò e farò sapere anzi notare quanto lei sia tonta, anzi scusi, "BEGONZA"! Ci può giurare signorina Santi. E' ciò che si merita e vedrà in poco tempo quanto sarà famosa in questo ambiente. La saluto, ma prima di chiudere questa mia visita è bene che salga le scale e arrivi ai piani superiori dove ci sono quelle "gerarchie" che lei dice di ignorare signorina (qui passa il segno perchè è pure bugiarda) perché io non ho proprio nessuna intenzione di ignorare nessuno soprattutto chi ha una responsabilità oggettiva su quanto è accaduto se non anche quella soggettiva il che sarebbe veramente un'indecenza e una carognata. Salgo quindi al piano superiore e chi ti vedo? Direttore responsabile (lo dice la parola stessa) Alberto Campo! Noooo...ancora tu, Alberto...ma come? Non ti rompo i coglioni da una vita anche se in tutta la disputa con Casacci avrei potuto mettere il tuo nome ogni tre righe, non prendo al balzo la polemica fra Statuto e "baronie" torinesi nella gestione del music-bussiness a livello locale e non ti cago neanche di striscio e tu...mi fai questa stronzata. E no, non va mica bene. Almeno una volta mi scagliavi contro un tuo fedele scudiero come Ferrari adesso invece questa "begonza" della signorina Santi. Alberto, ma veramente tu credi che puoi utilizzare queste stronzate come ti pare e piace e sputare direttamente e non sui Gang solo perché ti senti forte nel tuo "fortino" e fra la tua "corte dei miracoli" del rock italiano. Va bene che a Torino sei al centro di quel triangolo che va da Rumore a Radio Flash a Hiroshima che insieme si spartisce la piazza concessa insieme a tanti denari dalle autorità occulte che vanno da Comunione e Liberazione ai DS ma questa tua autorità e potere non ti può mica permettere di sputarmi in faccia e di farmi prendere per il culo. Non sta a me giudicare politicamente il tuo operato e quello dei tuoi alleati casomai sta a Rifondazione aprire sulla gestione culturale della città un capitolo nuovo vero e proprio ma questa è un'altra storia... Lo so che quando qualcuno pagava per noi, vedi casa discografica,agenzie ecc.ecc. noi passavamo in mezzo a quel territorio compreso il tuo giornale ma da quando siamo autonomi e nessuno paga non perdi occasione per calunniarci e sbarrarci il passo, tu e i tuoi amici. Non va bene Alberto. E' ora che esci fuori, allo scoperto e se proprio ti stiamo sul cazzo dillo apertamente anzi diccelo in faccia senza usare altre persone (delle mezze seghe poi potresti farne a meno) o pretesti veri come l'uscita di un disco. Anzi ti dico che puoi rifarti da questa caduta di stile solo in un modo: con un'intervista. Se hai le palle perchè non mi intervisti su Rumore? Vedi sono io che vengo a casa tua. Fallo se hai coraggio, altro che il nostro è un disco inutile, che disturba, che è asfittico e stantio... Noi non solo chiediamo che questo disco venga "recensito", non offeso nè preso per il culo, ma chiediamo un'intervista su questo disco e non solo. E vuoi vedere che una volta per tutte te la fai finita di rompere i coglioni? Di solito quando si offende qualcuno su una rivista questo qualcuno non si presta a nessuna intervista su quel giornale che l'ha offeso e invece io no, ti dico che pretendo un'intervista poichè sono stato deriso, preso in giro, sbeffeggiato su un giornale come Rumore di cui sei responsabile. E l'intervista la pretendo da te e non da qualche tuo scudiero o valvassino. Sappi che stavolta non te la puoi squagliare poiché tutto ciò che dico o faccio in casi come questi viene reso pubblico quindi queste parole saranno lette non solo da te ma da centinaia di altre persone visto che tale lettera girerà per molti siti internet. Adesso vedi tu, io sono qui che aspetto tue notizie. Marino Severini P.S. Alberto,detto fra me e te, quella signorina Santi...ma dove l'hai trovata? Certo che ti sei ridotto male ma veramente male......
Dalla musica punk filosovietica a papa Ratzinger, storia di un figlio del Sessantotto che ha cambiato idea su (quasi) tutto. E per settembre è attesa la sua autobiografia REGGIO EMILIA Sulla scrivania di Giovanni Lindo Ferretti c’è un piccolo leggio di legno con un libro antico, del 1813. è una raccolta di sermoni di Alfonso Maria De Liguori, un sacerdote del XIX secolo. Ferretti lo tiene aperto sulla predica che condanna l’ira: “Mi serve soprattutto quando penso alla politica. Dopo aver visto D’Alema a braccetto con l’hezbollah, per esempio, ho dovuto leggerlo avidamente”. Giovanni Lindo Ferretti era la voce dei Cccp. Il gruppo filosovietico che sotto la sua guida ha portato in italia la musica punk “emilianizzandola” e “comunistizzandola” [con buona pace dei Clash, n.d. emi.] (“Voglio rifugiarmi sotto il Patto di Varsavia, voglio un piano quinquennale, la stabilità”, recita un testo dei Cccp). “Non rinnego i miei errori” Oggi, abbandonati Repubblica e Il Manifesto, è abbonato all’Osservatore Romano. Vive nella casa di famiglia in un paese che non arriva a 100 anime, sull’Appennino emiliano a pochi chilometri dalla Toscana. Studia, canta, scrive. (A settembre Mondadori pubblica il suo autobiografico “Reduce”). E legge. Soprattutto Ratzinger: “Credo di aver letto tutto quello che ha pubblicato, tolti i testi più “tecnici”. Mi ero stufato, qualche anno fa di leggerne su Repubblica tutto il male possibile. Sono andato in libreria e ho chiesto se questo Ratzinger avesse scritto qualcosa. Mi hanno indicato una pila di libri. Da lì ho scoperto un genio prima che diventasse Papa”. E poi Simone Weil, Hannah Arendt, Don Giussani, Dante. A 53 anni Ferretti continua a “campare di parole”. Vincendo la sua ritrosia per i giornalisti, a Libero racconta un pezzetto del suo cammino, che l’ha portato da “Spara Yuri” agli inni alla Madonna, rintracciati e rielaborati pescandoli dalle tradizioni popolari di mezza Italia. “Certo, sono cambiato, ma per me è stato consequenziale. Sono stato educato da mia nonna e dai miei genitori, da cattolico. Ma sono stato anche figlio del Sessantotto e ho volontariamente aderito al comunismo, questa pestilenza dell’animo che si è rubata i figli migliori delle nostre famiglie. In un certo senso, sono tornato a casa. Ma non sopporto l’idea di essere anticomunista con lo stesso livore stupido di come sono stato ateo e bestemmiatore per anni. Voglio un po’ più di dignità”. La ‘conversione’ dell’uomo che cantava (e canta ancora) “Emilia Paranoica” non è improvvisa. Nessuna caduta da cavallo. “Negli anni novanta mi interessava moltissimo L’islam. Le tragedie dell’Algeria e della Jugoslavia mi hanno portato ad avvicinarmi a questo mondo. Ma la concezione della donna di quel mondo mi ha fatto capire che non faceva per me. Sono passato dal confucianesimo, dal buddismo. Ho capito che per anni avevo convissuto con pensieri insignificanti rispetto alla comprensione del mondo. Aveva ragione Wojtyla: anche per me è stato un male necessario. E qui ho riscoperto il cristianesimo”. Semplice come le preghiere che gli aveva insegnato la nonna, affascinante come il pensiero di Ratzinger, che ha colpito Ferretti “per il richiamo che fa all’esigenza dell’attaccamento alla tradizione musicale. In chiesa sento certi canti...”. I cliché del convertito, però, su Ferretti non fanno presa. “Se c’è da cantare “Fedeli alla linea” la canto. Non abiuro i miei errori, sarebbe troppo comodo. La mia storia è questa e chi mi ascolta oggi la conosce benissimo. Del resto, le cose non sono mai scontate. Al tempo dei Cccp un ragazzo, fan sfegatato, insiste per offrirmi un caffè e mi dice sottovoce di essere un missino. Uno choc! Ne ho conosciuto un altro, entrato in un convento monastico, che ha chiesto al suo superiore di portarsi in cella “Affinità e divergente tra il compagno Togliatti e noi (uno dei dischi più noti dei Cccp, ndr). Quando ho fatto una canzone su Sarajevo attaccando il pacifismo, c’è chi l’ha usata come inno pacifista. IO offro la sincerità del mio percorso, del resto mi importa poco”. E i fan “traditi”? C’è già qualcuno che ha provveduto a scomunicarlo, quando l’estate scorsa ha fatto sapere di condividere la posizione della Cei sul referendum di bioetica. Altri lo accusano di opportunismo. Lui non se la prende, parla con rispetto degli ex compagni di band (“Ma oggi siamo su mondi diversi”). I Cccp sono diventati Csi (Consorzio Suonatori Indipendenti) dopo la caduta del Muro, poi Pgr (Per Grazia Ricevuta). Neocon e Dossetti a braccetto Oggi Ferretti lavora soprattutto sulla musica sperimentale e sacra. Tiene letture di Dante. È probabilmente l’unico neoconservatore dossettiano del panorama mondiale: “il pensiero neocon mi ha stupito e interessato. Si definiscono liberal assaliti dalla realtà o comunisti venuti dal freddo: e io mi ci ritrovo benissimo. Per mezzo mondo oggi “neocon2 è un insulto, così come lo è “dossettiano” per l’altra metà. Ma Dossetti qui da noi è stato un baluardo dei cattolici contro i comunisti per tanti anni. Per me è un santo, un santo che non capiva niente di politica”. E la politica è la cosa che fa più arrabbiare Ferretti oggi. A un tiro di schioppo dal suo paese c’è quello dove Sandro Bondi fu sindaco del Pci. Oggi ce l’ha con la sinistra, piena di “comunisti stemperati” che “fanno i liberali ma non lo sono”. Per lui votare centrodestra alle ultime elezioni è stata “una rivoluzione” che l’ha divertito parecchio. Entrando nella sua stanza c’è una bandiera di Israele attaccata a una trave. Venticinque anni o giù di lì cantava “Bombardieri su Beirut”. I bombardieri adesso ci sono di nuovo e lui soffre per la “perdita di senso della realtà” dei governanti italiani, per D’Alema e per l’Onu. Mentre si accende e fuma una delle 50 sigarette quotidiane (dopo che gli è stato asportato un cancro al polmone) Ferretti parla di dolore: “Nella mia vita l’ho conosciuto. Sono stato operato sette volte, ho avuto malattie gravi. Il nostro mondo ha prima abolito la morte, nascondendola ai bambini, confinandola più lontano possibile, abolendo le veglie, i funerali. Adesso cerca di abolire il dolore: ma è un atto di una violenza terribile, la stessa che portava il comunismo a voler costruire il paradiso in terra. Avvicinandosi all’inferno”. In pellegrinaggio a cavallo Una delle canzoni più riuscite e amate dei Cccp è un inno nichilista, “Io sto bene”: “”non studio non lavoro non guardo la TV / non vado al cinema non faccio sport”. Ferretti ha cambiato solo le prime due cose (per esempio, non sa nulla della musica leggera contemporanea degli ultimi 10 anni) ma le ha cambiate del tutto. Di sera va a dar da mangiare e a strigliare i suoi quattro amatissimi cavalli. Li deve ferrare e tirare a lucido perchè questo weekend andrà con gli amici, in sella, in pellegrinaggio alla Madonna della Guardia, sui colli toscani. I vecchi del paese arriveranno in pullman. Antonio Socci (tratto da libero)
Un’isteria collettiva spiegata a fatica.Arrivo nei pressi del Forum di Barcellona che sono ormai quasi le 21. Sul palco del Rockdelux, i Drones stanno suonando già da qualche minuto. Tutte le persone che conosco e che sono sotto il palco ad agitare la criniera torneranno indietro con il sorriso a trentadue denti che dà un concerto bellissimo. Rock and roll, blues e noise come si faceva una volta, un po' Jon Spencer e un po' no. Purtroppo non riesco a lasciarmi coinvolgere ed incomincio la marcia verso il Danzka Cd Drome dove Castanets è impegnato già da un po'. Una serie di incontri fortuiti e gli obbligatori saluti di rito con amici e conoscenti di quelli che vedi solo una volta l'anno e in situazioni simili mi fanno perdere completamente lo show. Ma ormai sono lì e prendo posto sotto il palco per l'esibizione della No Neck Blues Band.Chiunque mastichi un po' di musica altra e si sia già imbattuto nel nome di questa bizzarra formazione sa cosa aspettarsi. Un'ora della più ardita improvvisazione musicale possibile in cui l'aspettatore viene coinvolto a più livelli e il concerto diventa performance. E' curioso vedere una band contraria all'istituzione "palco" esibirsi all'interno di un festival in cui, per forza di cose, tutto è ordinato e stabilito. Infatti anche loro all'inizio sembrano fuori luogo e ci mettono un po' a lasciarsi andare. L'inizio del concerto è tradizionale. Un basso, una chitarra e una batteria. Pian piano che si avvicendano sul palco gli altri componenti della band (l'uomo con la barba pù lunga del mondo agli effetti ed una giapponese posseduta da Damo Suzuki alla voce) le cose si fanno più complicate, la musica diventa sempre più free fino a quando una piogga di piatti ed altri componenti della batteria incomincia ad invadere il palco, il batterista biondo si sposta alle percussioni ed inizia un suo personale show che lo porterà a finire il concerto praticamente nudo. Per me è tutto molto interessante, mentre la persona che ho vicino incomincia a manifestare antipatia per "il baccano più assurdo che abbia mai visto". E a colpi di "cos'è questa roba", decidiamo che è arrivata l'ora dei Motorhead. L'ora di Lemmy. Ecco, se non siete mai stati a Barcellona e non avete mai messo piede in un festival indie, fatto per un pubblico indie, in cui suonano gruppi indie, non potete capire il bellissimo shock causato dalla visione di biker e metallari impegnati a saltare e cantare insieme a ragazze con la frangia ed i vestiti anni cinquanta e giovani fighetti che danno l'idea di vivere gomito a gomito con lo spleen da quando si alzano fino a quando non vanno a dormire. Tutto questo è successo durante il live set dei Motorhead, con il bubbone più famoso della storia del rock emozionato come un bambino per il suo primo concerto da sessantenne e la sua voce di cartavetrata violenta ed abrasiva come le note emesse dal suo basso. Fantastico. Anche se troppo lungo e fedele al motto: "Tre minuti, quattro minuti, tiè, pure cinque. Poi però rompe il cazzo". Durante Aces Of Spades vado a prendere posto sotto il palco in cui sta per suonare Why?.Il concerto è carino e divertente. Nulla di più e nulla di meno. Scorre veloce come un sorso di birra e lascia subito il campo ai Fuckin' Grown-upshambles (come li chiama Lemmy ). Per chi scrive invece diventa l'ora della comida, riesco comunque a vedere un paio di pezzi. Con Pete Doherty che canta male, malissimo e il gruppo che suona benino canzoni che non faranno la storia del rock ma che assomigliano tantissimo a canzoni che hanno fatto la storia del rock. Piano piano il pubblico si fa sempre più esiguo ed incomincia l'esodo di massa verso il Danzka Cd Drome.Spiegare quello che sta succedendo in Spagna intorno agli I'm From Barcelona non è una cosa facilissima. Praticamente la band svedese si è ritrovata al centro di un vero e proprio caso. La sua canzone tormentone We're From Barcelona è diventato un inno per i tifosi del Barça nei giorni della Champions League, l'organizzazione del festival ha deciso di usarla come sottofondo per gli spot televisivi e la gente si presenta nei pressi del palco armata di foglietti e pronta ad abbandonarsi a cori ed urla di giubilo. E' curioso vedere tutte queste persone che fanno le prove mentre il gruppo non è ancora salito sul palco. Ma è un attimo: le luci si spengono e dagli altoparlanti escono le note di Barcelona. La canzone di Freddie Mercury e Montserrat Caballé. Uno dei duetti più trash che la storia della musica ricordi. I ventotto svedesi (mancava uno) prendono posto dietro gli strumenti. Cioè, i pochi che suonano prendono posto dietro gli strumenti, gli altri riempiono il palco non si sa bene per fare cosa. Qualcuno fa le foto, qualcuno suona il kazoo, qualcun'altro riprende. Tutti ballano e cantano. In coro. In poco più di trenta minuti si aggiudicano l'award per la performance più divertente e fuori di testa dell'intero festival. Una sorta di Polyphonic Spree che devono ancora impare a suonare e con il più alto tasso di figa sul palco. Chiude il tutto una versione acustica e sing along di We' re From Barcelona. Il tempo di farsi una passeggiata, salutare Giulia che va a dormire ed è il turno di Yo La Tengo. Sicuramente la band di punta di questa prima serata. Il gruppo con pià storia alle spalle (ok, dopo i Motorhead) e con il maggior talento. Stranamente il concerto lascia un po' di amaro in bocca. Niente da dire sulle canzoni, ma stupisce la scelta di una scaletta maggiormente concentrata sui pezzi lunghi e psichedelici del repertorio. Praticamente come vedere i Velvet Underground intenti a suonare kraut rock. Bello ed interessante, ma non il concerto che era lecito aspettarsi. Urbino lo scorso anno e la recente tourneè italiana sono tutta un'altra cosa. Mentre il freddo diventa insostenbile, i tecnici si danno da fare per il cambio palco che trasformerà il forum in una dance hall. Ma non ce la faccio. I miei piedi mi abbandonano e la stanchezza mi porta a rinunciare al dj set dei 2 Many Dj's. Vado a dormire. Domani si ricomincia.
Barcellona – Estrella Damm/Primavera Sound 2005“…la prima volta fa sempre male la prima volta ti fa tremare”
Arrivo a Barcellona con in testa le parole di una canzone italiana. Perché? Non lo so. Non chiedetemelo Non è vero che “la prima volta” fa sempre male. E’ solo un luogo comune… soprattutto qui. Il ricordo della scorsa edizione del Primavera Sound mi ha fatto compagnia per un intero anno. Nella mia testa, ogni cosa era al posto giusto, tutto era stato perfetto: i nomi in cartellone, la reunion dei Pixies, l’organizzazione, il clima, la location, i !!! dal vivo. Tutto. Non scherzo. E’ la seconda volta, invece, a farmi “tremare”. Il pensiero di vedere un festival crescermi tra le braccia, come un bambino che fino a ieri ho sostenuto perché imparasse a camminare, mi spaventa non poco. “E se non fosse più come prima? E se stesse per diventare un festival come tanti altri? Se…” Il Primavera era un festival vivibile. Un Benicassim per pochi eletti. Ora vuole diventare altro. Il FiberFib di Barcellona, con tutti gli annessi e connessi. Il Primavera si teneva in una location più unica che rara (uno splendido finto borgo medievale, luogo di scarpinate e di rock and roll). Ora si tiene nel Forum. Enorme ex complesso industriale situato nella periferia della città. Il Primavera, non è più quel Primavera. E’ una cosa nuova, da scoprire e da guardare con gli occhi di chi non ha visto niente fino a poco tempo prima. In realtà basta poco per accorgersi che questi cambiamenti e questo tentativo di far crescere la rassegna non hanno per nulla intaccato quell’atmosfera particolare che si respira solo per le strade di Barcellona. Perché, c’è poco da fare, il Primavera Sound è il Festival di Barcellona. E’ fuori dalla città ed al tempo stesso è dentro. Basta poco, dicevo, per rendersene conto. Basta un giro per le ramblas e buttare un orecchio nei bar, nei negozi, sulle panchine. Ovunque si respira l’aria festivaliera. Nelle boutique, come nelle videoteche, si ascolta solo il disco dei Maximo Park, davanti ai banconi delle discoteche è tutto un raccontarsi com’era Iggy la prima volta che è venuto in città e com’è ora, che finalmente ci torna. Barcellona è sveglia ed ansiosa. Mancano poche ore e tutto, ma veramente tutto, comincerà a suonare. PRIMO GIORNOMetto piede dentro il forum e rimango colpito dalla vista di un enorme, strano accrocco sopraelevato. “E’ il pannello solare più grande d’Europa”, mi dice l’uccellino. Ed io do sempre retta a quello che mi dice l’uccellino. Tra il pannello solare di poco sopra e il resto ci sono sette palchi. Solo due attivi oggi, per permettere al pubblico di abituarsi con calma alla sbornia di suoni a cui saranno sottoposti nei prossimi due giorni. Il più grande dei due escenari (come dicono qui) è il Rock Delux por Lois, una sorta di main stage di riserva del festival. Tutt’intorno, c’è un piccolo-grande (potevo dire “medio”) anfiteatro con le gradinate che confluiscono nel parterre e una lunga spianata di cemento che arriva fino al palco. Dietro di questo, niente, solo il mare. Solo. Dopo essermi fatto una passeggiata fino al Danzka CD Drome ed aver visto gli ultimi minuti degli It’s Not Not (gruppo un po’ emo, un po’ indie, un po’ punk funk, un po’ tutto) ed essermi fatto grandi risate grazie al cantante che si getta dal palco in un tentativo di stagediving e finisce per inciampare in una scatola di cartone, ritorno sui miei passi per assistere all’esibizione degli Art Brut. La nuova big thing della scena inglese non delude le aspettative. La miscela, esplosiva, è rock and roll su cui svetta un cantato/parlato tipicamente inglese. Un po’ Mike Skinner (The Streets) che canta in un gruppo punk, un po’ Mark E. Smith dei Fall. Anzi, un po’ The Fall e basta. Hanno un’ora di tempo, ma ne impiegano solo metà, per un set che pesca da quasi tutto l’album di esordio. l loro concerto finisce con il cantante, camicia aperta e pancia formata a birre e superalcolici, intento a tendere le mani verso l’alto e ad invocare “il Dio” Top Of the Pops. Una pausa veloce e tocca ai Maximo Park. La band di Newcastle viene accolta da una vera e propria ovazione. Il faccino pulito ed incravattato di Paul Smith rimane esterrefatto dal calore incredibile degli spagnoli e del resto degli astanti. Uno dopo l’altro, i singoli di “A Certain Trigger”, vengono seppelliti dal singalong collettivo. D’altro canto, la band fa lo stretto necessario per farsi apprezzare: i brani vengono eseguiti pari pari al disco, rivelando però una certa tendenza a semplificare le parti strumentali. Cosa che, purtroppo, finisce per inficiare l’impatto live del gruppo. La gente però continua ad essere contenta ed in delirio. Contenti loro, contenti tutti. Mentre sull’altro palco è il turno dei Jesu, band nata dalle ceneri degli oscuri e metallosi Godflesh, comincia a sentirsi forte l’attesa per gli Arcade Fire. C’è poco da sviare il discorso e fare gli snob, il duo (sono molti di più in realtà, ma osservandoli si ha la sensazione di assistere ad un vero e proprio gioco di coppia) canadese è il gruppo del momento. Quello da sbattere in prima pagina sulle riviste e da tirare fuori come argomento di discussione in una cena tra “inseriti”. Sul loro “esordio spagnolo” gravita una tensione da evento importante per nulla indifferente. Tutta la gente è qui per sentirli suonare. Tutti sono qui per toccare con mano l’ennesimo nuovo segreto dell’indie Fatima, il “mistero” da svelare una volta per tutte, il culto di cui diventare adepti, oppure da abbandonare in caso di passo falso. Loro sembrano non curarsene, giustamente, e danno vita ad un concerto in grado di svegliare dal sonno il più scettico degli scettici. Sono una macchina perfetta, gli Arcade Fire. Sono epici ed allo stesso tempo essenziali, sono originali ed allo stesso tempo ancorati alla tradizione. Non sono “il gruppo del momento”, come si diceva poco sopra, ma il gruppo in grado di poter cambiare, stravolgere e plasmare sotto il suono della propria musica questo benedettissimo momento. Le canzoni, quelle bellissime come Power Out e quelle toccanti come In the Backseat, eseguite dal vivo acquistano dieci-cento-mille punti. Un brano come Rebellion/Lies, finisce per acquisire tutti i cliché dell’inno. L’anthem di cui il frammentatissimo popolo indie aveva bisogno. Anche il colpo d’occhio è eccezionale: Win Buttler e Régine Chassagne occupano il centro della scena. Sono loro il vero fulcro del sestetto. Lungagnone, lunatico e sopra le righe lui, eterea, materna ed incredibile lei, che nel corso del concerto si cimenta nel suonare quasi tutti gli strumenti presenti on stage. Una sorta di Bjork senza quel talento e quella vocalità, ma con lo stesso identico magnetismo. Mentre salutano la folla festante, mi arriva chiaro in testa il pensiero che dopo un concerto così non ci sarebbe niente di meglio da fare che prendere armi e bagagli ed andarsene a casa. Un appartamentino sulla Ramblas del Raval, invaso costantemente dalla puzza di fritto e dal caos della strada sottostante. Niente di tutto questo: al Danzka ci sono gli Isis ed io non voglio perdermeli. Ammetto la mia ignoranza: non li ho mai ascoltati, ma da mesi (meglio, da anni) vengo bombardato dai pareri positivi degli amici metallari e non. Alla fine, avevano ragione loro: gli Isis sono una miscela originalissima di post-rock e metal. Detta così può non voler significare nulla, ma vi giuro che non avevo mai visto niente di simile. Le canzoni dei Mogwai o dei Godspeed You! Black Emperor, con i suoni rubati allo stoner. Chitarre distorte e bassi saturi. Granitici, devastanti ed estatici. Una sorpresa, almeno per me. Mentre Tim Hecker massacra le gonadi al pubblico con il suo ambient-noise, mi sposto nuovamente per vedere il set dei Radio 4. L’inutilità fatta musica. Una band studiata al tavolino per essere quella giusta nel posto giusto, e che finisce inevitabilmente per sembrare indietro di vent’anni proprio al cospetto di quelle mode che cercano senza coraggio di riprodurre. Irrilevanti, è questa la parola giusta. Quando sono le tre e quarantacinque e le gambe iniziano a fare Giacomo-Giacomo (o Diego-Diego, come si dice ad Arezzo), ecco che appare sul palco Max Tundra. Un nano da giardino che ha come personal stylist un non vedente, suppongo, e che riesce a tenermi sveglio e a farmi ridere per una buona mezz’ora. La sua musica è un po’ pop mainstream di derivazione anni ottanta, un po’ techno da balera. Lo stile ironico con cui si presenta sul palco e condisce tutte le sue canzoni, lo rendono un piacevole intermezzo. Intermezzo che rasenta la gloria quando il nostro eroe si produce nel cosiddetto gesto della “cassa”: leggermente chinato verso il pubblico, con le mani, tese in avanti a contorno della testa, che si muovano a tempo con il beat forsennato della musica. Resta da capire se si tratti di un genio o di un cazzone. O tutte e due le cose. Mentre decido di andare a dormire, m’imbatto nel dj/live set di Vitalic. Beat cafoni e cassa grassa. Un po’ Daft Punk e un po’ acid house vecchia maniera. Il modo giusto per aspettare l’alba e buttarsi sul letto: ballando. SECONDO GIORNO
Con i postumi di una notte brava e di un pranzo luculliano, arrivo al Forum in tempo per vedere Parker and Lily, non perché conoscessi già la musica del quartetto-coppia newyorchese, ma perché attirato dalle parole, spagnole, della cartella stampa. Anche questo fa parte del bello di un festival. La band suona in quello che viene descritto come l’auditorium più grande d’Europa (ancora?), un avveniristico teatro da tremilacinquecento posti che, forte di un’acustica impeccabile, viene scelto dagli organizzatori come location per quei concerti in cui il forte bisogno di intimità fa la parte del leone, almeno quanto il bilanciamento dei volumi e la chiarezza del suono. Intimi sono anche Parker & Lily, una sorta di Xiu Xiu meno teatrali ed arzigogolati, ma più elettrici e dediti ad una scrittura che pesca a piene mani dalle radici folk. Per una volta, un comunicato stampa ha detto la verità: non sono per niente male. La sicurezza del posto a sedere conquistato mi dissuade dal fare fagotto e recarmi ad assistere il live di Sole +12Twelve (i pochi sole-rti me ne parleranno, comunque, bene). Fra poco qui, c’è Antony. Sì, quell’Antony lì. Quello delle copertine delle riviste specializzate e delle pagine intere dei quotidiani. L’oggetto misterioso Antony. L’ambiguo e talentuoso Antony. L’affascinante e androgino Antony. Insomma: lui. Sale sul palco in compagnia dei suoi Johnsons e subito la sua voce prende il sopravvento sul resto, emergendo forte, unica e cristallina. Prende il sopravvento su tutto, tranne che sul suo personaggio, ingombrante e talmente sopra le righe da risultare, a tratti, fastidioso. Peccato, perché il talento di Antony è puro ed inequivocabile e la sua classe non si discute, ma ammetto che le canzoni di “I’m a Bird Now” mi sarebbero arrivate molto più al cuore se non fossero state intervallate da certe espressioni e certi momenti di comicità involontaria (per esempio, quando costringe l’intero auditorio ad imitare il verso della tortora, così, solo per avere un tappeto d’ambiente su cui poter suonare). Lascio Antony alle prese con la parte finale del suo set (immagino non sarà mancata Candy Says), e corro al main stage per vedere i Broken Social Scene. Se sfogliate regolarmente queste pagine, sarete sicuramente al corrente della considerazione che ho per questo gruppo. E ancora una volta, le pur altissime aspettative non vengono per niente deluse. La formazione è più o meno quella del tour italiano dello scorso autunno; la scaletta invece è più adatta ai grandi spazi e finisce per puntare sulla potenza piuttosto che sulle sonorità rarefatte. Kevin Drew e Brendan Canning, sono come al solito i punti cardine di questa folle carovana di freak canadesi. Il primo sembra assecondare sempre più il suo ruolo di Bono Vox indie, adottandone anche il look tutto occhiali da sole e giubbotti di pelle. Brendan invece, con una ruffianissima maglietta del Barcellona numero 05, lascia quasi completamente il ruolo dell’istrione al compagno e si concentra sul sul basso e sulle (poche) parti cantate. La voce femminile è quella di Amy Millian degli Stars, ormai sempre più a suo agio nel ruolo che fu di Leslie Feist e sempre più incredibile quando canta Anthems For a 17 Year Old Girl. Un set breve, ma carico ed impeccabile. Anche Erlend Oye, il lungagnone dei Kings Of Convenience e vero presenzialista del festival (lo si incontra ovunque), sorride e sembra annuire. Una grande band. Tra Ron Sexmith, Micah P.Hinson e Gravenhurst, tiro in alto la monetina e finisco per andare a vedere questi ultimi (per i precisetti: avrei scelto Ron Sexsmith solo se la moneta fosse atterrata di taglio). Il classico trio, basso, chitarra e batteria, dà vita ad un live molto nervoso e impeccabilmente post – hardcore come si faceva una volta. Per un secondo penso che una band così sarebbe stato bello vederla nel decennio scorso, poi mi fermo e ci rifletto un attimo: avevamo i June Of 44, cosa ce ne facciamo dei Gravenhurst? Con questo dubbio amletico in testa, decido che è arrivato il momento di una pausa e salto a malincuore l’inizio di David Thomas & Two Pale Boys. Sul main stage stanno per salire Iggy Pop e gli Stooges. Mi dispiace, ma non ce la posso fare: sento un forte richiamo che mi fa camminare fino alle prime file e mi blocca lì. Ad aspettare. Iggy sale sul palco ballando e saltando prima ancora che la musica inizi. Ron Asheton è diventato con gli anni il sosia di Michael Moore, suo fratello Scott è sepolto dalla batteria. Al basso c’è Mike Watt, il signor Minuteman. In pratica la Storia. Quella con la “s” maiuscola. Davanti a me. Fin dall’iniziale Loose mi arriva chiara in testa una cosa: Iggy Pop è un’ira d’Iddio! Lo guardi mentre si dimena, canta, arringa il pubblico e pensi che non c’è niente da fare, che questa storia dell’età, degli anni, è solo una bella cazzata. Guardi Iggy sul palco e non vedi un vecchio. Vedi un tornado. Forte e senza freni. Molto di più dei ventenni fighetti che si trovano in giro adesso. I quattro pescano a piene mani da due dei tre album pubblicati sotto l’amata sigla, ed escludono a priori quelli di “Raw Power”, terzo disco mai veramente amato da Iggy e compari. E questa, signori miei, è coerenza.. Resisto tra il pogo per i primi sette pezzi, poi, subito dopo I Wanna Be Your Dog, mi sposto nell’area dedicata alla stampa e seguo il resto del concerto seduto sull’erba. Lo so, chiedo scusa, non è molto rock and roll. Su Real Cool Time, l’Iguana ingaggia un duello con la security e fa salire sul palco sette fortunati del pubblico, con cui condivide microfono e movenze. Dopo una psichedelica ed estenuante No Fun, arriva il momento migliore: con il sax di Steve Mackay vengono eseguiti alcuni dei brani di “Fun House”. Sembra di fare un salto indietro nel tempo e viene da provare invidia per quelli che questa cosa qui l’hanno vista quando era ancora “nuova” e “rivoluzionaria”. Magari proveranno la stessa cosa i nostri figli quando si troveranno davanti la reunion dei Modest Mouse. Per dire un nome a caso. Il tempo di un’altra I Wanna Be Your Dog ed arriva il momento dei saluti: “Goodbye Catalunya!!!”. Gli Stooges se ne vanno. La musica continua. E’ un piccolo shock arrivare, con l’anima e il corpo sconquassati dal furore e dall’adrenalina, nella piccola arena dove Kristin Hersh sta suonando da sola, voce e chitarra. Non c’è neanche il tempo di abituarsi alle sue deliziose litanie che è già il momento di cambiare palco nuovamente. Al Rockdelux stanno per esibirsi gli American Music Club, e ancora una volta le mie gambe mi sostengono e mi portano fino al luogo deputato senza che riesca nemmeno a rendermene conto. Lo dico senza mezzi termini e rischiando di fare la figura dell’idiota: questa era il concerto più atteso. Quello che mi ha fatto sobbalzare quando ho letto il cartellone, quello che volevo vedere da più tempo. Per una serie di motivi. Che hanno a che fare tutti con il cuore. Inizia il solo Mark Eitzel, con una versione di Ladies and Gentleman totalmente opposta a quella dell’ultimo, splendido, “Love Songs For Patriots”. Il fragore degli strumenti, viene rimpiazzato da una chitarra acustica e la canzone si veste di nuovi, magici, colori. Poi sale sul palco la band e tutto si fa più “normale”. Le canzoni ci sono e sono bellissime, Eitzel canta bene, ma qualcosa va storto. Almeno a me, che non riesco a farmi catturare come avrei voluto dallo show. Forse li ho aspettati per troppo tempo e non mi ero ancora accorto di essermi già spostato. Peccato. E’ di nuovo tempo di correre verso il main stage, dove è il turno dei New Order. La band più attesa dal pubblico spagnolo e non. Per accorgersene basta contare le magliette dei Joy Division presenti tra il pubblico. Io l’ho fatto, ne ho viste trentadue. Ma probabilmente ce ne sono molte di più. Gli stessi American Music Club hanno suonato un pezzo della band di Manchester. C’è poco da fare: la gente è qui per i New Order. E per il passato. Per Ian Curtis. Il boato che segue Love Vigilantes è d’antologia. Ma subito qualcosa si rompe. Tra le prime file del pubblico, alcuni dark invecchiati male gridano a Sumner di essersi venduto. Lui li fissa pieno di sdegno ed introduce Crystal mandando chiaramente a quel paese gli spagnoli, rei di non aver apprezzato i loro ultimi dischi. L’atteggiamento resterà di questo tenore per tutta la durata del concerto. E’ un peccato, però, che cotanta sfrontatezza non faccia da corollario ad una performance coi fiocchi. Perché se i New Order possono vantarsi di mettere su una scaletta senza eguali (Bizarre Love Triangle, True Faith, Regret, Temptation, Blue Monday, senza contare Transmission e Love Will Tear Us Apart dal repertorio dei Joy Division), al tempo stesso sono responsabili di una performance musicale a dir poco scadente. OK, Peter Hook con i suoi assoli e le sue movenze da coatto si fa sempre apprezzare, ma i New Order visti a Barcellona sono la fotografia di una band che dal vivo ha poco o nulla da dire.I brani (immortali, ripeto) appaiano tutti raffazzonati e suonati con l’energia di chi sta lì per dare “perle ai porci”. Spesso i componenti della band suonano senza neanche rendersi conto di quello che stanno facendo. Triste ed al tempo stesso straniante, perché se le orecchie si rifiutano e le braccia si chiudono, le gambe si muovono ed alla fine il volto si lascia andare ad un sorriso. Di corsa mi sposto per assistere al live dei Mercury Rev. Lunari e Pink Floydiani come al solito, confermano in concerto di non aver smarrito il talento di cui difettava “The Secret Migration”, anche se alla lunga finiscono per annoiare e io passo il mio tempo a fissare le movenze sgraziate di una ragazza che balla sulle trame dei Mercury Rev come se stesse ascoltando un concerto di musica reggae. Faccio due salti, letteralmente, durante il set di Whitey e vado a prendere posto per uno dei concerti più attesi della serata. No, non i pessimi scheletri tirati fuori dall’armadio degli anni ottanta e che rispondono al nome di The Human League, ma ben altra band. I Piano Magic di Glen Johnson salgono sul palco che sono ormai le tre del mattino. I più stanchi tra il pubblico si lasciano andare lungo le gradinate che compongono l’arena, ma sono la minoranza. La maggior parte della gente è accalcata sotto il palco ed attende il set dei Piano Magic come se si trattasse di uno dei grandi big della rassegna. Dopo un soundcheck lungo e piuttosto laborioso, le luci si spengono e la band inglese viene accolta da un boato incredibile. La scaletta è, ovviamente, incentrata prevalentemente sull’ultimo (ottimo e sottovalutato) “Disaffected”. A stupire però è la resa dei brani che vengono totalmente riarrangiati e riassettati per risultare più consoni all’esecuzione dal vivo. Quelli che si aspettavano un’oretta di musica suffusa, suonini elettronici delicati e botta e risposta tra voce maschile e femminile rimangono spiazzati. La “faccia” live di Piano Magic è più sporca e nervosa. Le atmosfere rimangono quelle malinconiche ed emotive dei dischi, anche se a farla da padrone è il suono di una chitarra elettrica che non rinuncia ad improvvisi scatti di rumore. Vengono eseguiti solo i pezzi cantati da Johnson, figura di leader improbabile ed impacciata ed allo stesso tempo fiera ed assolutamente credibile. Il concerto finisce ed in testa rimane una forte sensazione di spaesamento. Ed ora? Dove si va ora? In preda alla più totale indecisione decido di bighellonare per l’area festivaliera, mangiare un boccone e godermi a sprazzi alcuni degli ultimi live e dj set in programma (gli Alter Ego costretti a saltare per un problema tecnico, gli improbabili ed incapaci “rappusi” Wiley ed il sound system della Kompakt), trovo pace e calma solo quando ricapito nei pressi del Rockdelux . Sta per iniziare il dj/live set di DJ Krush, i pochi coraggiosi sfidano il freddo (incredibile ma vero) e restano in piedi pronti a danzare e a far ondeggiare la testolina. Il coraggio non fa parte del mio mondo, mentre assistere ad un bellissimo dj/live set hip hop/breakbeat e tutte le altre definizioni che volete voi decisamente sì. Le note di Dj Krush mi accompagnano fino all’alba. Poi si va a dormire. Sono stanco, ma felice. L’essere sopravvissuto indenne ad una giornata così ricca di eventi e frenetica nei tempi va diritto a far numero tra i miei record personali. Ne sono fiero. Domani si ricomincia. TERZO GIORNO“Il terzo giorno resuscitò”, secondo le Scritture. Devo ammettere che, non riuscendo a rotolare fuori dal letto prima dell’ora in cui normalmente ci si abbandona alla “pennica”, ho sinceramente finito per dubitare di quanto sopra. Basta poco, però, e sono di nuovo in piedi. Assonnato e distrutto dalla fatica, ma in piedi. Un pranzo a base di pesce ed una birra ristoratrice mi mettono dell’umore adatto per affrontare un’altra giornata di concerti. Mi perdo (me misero, me tapino) sia il live degli Czars che quello di Vic Chesnutt, ma riesco ad arrivare in tempo per i Tortoise. Prima, però, mi reco nei pressi del main stage dove, già da un po’, sta suonando Josh Rouse. Non presto molta attenzione a quello che succede sul palco, preferisco concentrarmi sulla birra e sulle canzoni, che ascoltate da seduti su un prato assumono quasi i colori delle composizioni degli Wilco, ma più pop. Nel senso di radiofoniche. Giusto il tempo di essere messo a conoscenza dell’annullamento dei Television Personalities ed arriva il turno proprio delle tartarughe di Chicago. Non è la prima volta che li vedo, ed ammetto che i loro ultimi lavori discografici mi hanno lasciato piuttosto freddo, per non dire totalmente indifferente. Ed è così, con le aspettative di chi è abituato a non aspettarsi niente di niente, che prendo posto all’interno dell’auditorium del forum. Auditorium che definire gremito è riduttivo. I Tortoise attaccano gli strumenti agli ampli e tutto risulta chiaro. Sono in forma. In ottima forma. Confermano tutto quello che si dice da tempo su di loro: hanno abbandonato il rock, vanno sempre più alla deriva verso un jazz che con un po’ di paura viene quasi da definire “latin”, ma non sono diventati accademici. Nossignore. Sono freddi, matematici, distanti – questo sì - ma non hanno perso nulla della carica che avevano nei primissimi anni novanta. O forse, l’hanno ritrovata proprio questa sera. Di fronte ad un pubblico adorante ed in delirio. Finito il concerto, faccio pochi passi e mi trovo di fronte i Dogs Die In Hot Cars. Uno dei “nuovi gruppi inglesi” più attesi del festival, grazie anche all’investitura di “nuovi XTC” che li accompagna sin da quando hanno mosso i primi passi da band. Purtroppo soffrono della stessa malattia che accomuna molte band d’oltremanica: tanto curati su disco, quanto raffazzonati ed improvvisati dal vivo. Le canzoni sono gradevoli, ma i suoni mal bilanciati (soprattutto una fastidiosissima tastiera) ed un cantato piuttosto stonato pregiudicano la riuscita del concerto. Giusto il tempo per fare un salto a dare una occhiata alla “sagra di paese” allestita da Steve Earle (grossa delusione) ed è già il turno dei Dirtbombs. Vero mito del garage-rock americano (il cantante è Mike Collins, il fondatore dei seminali Gories) e veri e proprie macchine da palco. Il loro live è uno dei migliori del festival. La bizzarra formazione (una sola chitarra, due bassi e due batterie), riesce nell’intento di far divertire il pubblico e allo stesso tempo dà vita ad un concerto veramente riuscito. Il finale, in pieno stile rock and roll, arriva con la distruzione degli strumenti e la chitarra di Mick suonata con i denti (!). Incredibili. Mentre il sacro fuoco del rock n’ roll aleggia ancora sull’Escenario Nasti, mi rimetto le gambe in spalla per godermi qualche minuto degli “altri redivivi” The Wedding Present (sembravano in palla, non c’è che dire) e rifaccio il tragitto inverso per prendere posto sotto il palco che vedrà i Futurheads agitarsi e dimenarsi per un’oretta. O quasi. Anche loro, come tutte le band inglesi del momento, sono giovani, carini ed indossano la cravatta sopra la camicia a maniche corte. A differenza dei sopraccitati Dogs Die In Hot Cars, suonano più che bene ed ancora meglio riescono a gestire le parti vocali (ci voleva davvero poco). Li abbandono prima che arrivino alla fine del loro set, ma solo per un motivo: la storia. La storia che sta per salire su un palco e sta per fare del rumore. La storia chiamata Sonic Youth. I “nostri” aprono con una lunga intro di chitarra, che confluisce in I Love You Golden Blue a cui seguono altri tre estratti dall’ultimo “Sonic Nurse”. Il bello ovviamente deve ancora venire. Ed arriva: Pacific Coast Highway, Catholic Block, Expressway To Your Skull e Motel eseguite praticamente una dietro l’altra. Senza lasciare un minimo di respiro. Thurston Moore saluta il pubblico alla sua (stralunata) maniera e abbandona lo stage. Solo una piccola pausa, ovvio. E solo Teenage Riot, ovvio. Non c’è fine migliore per un concerto dei Sonic Youth. Ed infatti, finisce così. Neanche il tempo di farsi scrocchiare le dita dei piedi, che subito si presenta una dolorosa scelta: Out Hud o They Might Be Giants? Nonostante l’appeal (forte) del side project dei !!!, alla fine sono i secondi ad avere la meglio.E ci mancherebbe pure. I TMBG hanno la storia dalla loro parte, e sul palco fanno il possibile per non deludere la curiosità del pubblico europeo. Più unici che rari, vista da vicino sembrano la versione nerd e piuttosto tendente al cazzeggio dei Pixies. OK, lo sapevamo già, ma giuro che questo lato emerge con ancora più potente chiarezza se si ha la fortuna di trovarseli davanti. Mettono in scena un vero e proprio teatrino, cercando di non tralasciare niente della lunga carriera della band, con un occhio di riguardo sui molteplici side-project ed il nuovo album (mai uscito in Italia) “The Spine” a farla, ovviamente, da padrone. Non è un concerto facile, il loro. L’attitudine caciarona ed incline al prendersi poco sul serio fa sì che, tra il pubblico, i non iniziati rimangano di sasso, mentre il resto della ciurma finisce per applaudire ed alzare le mani al cielo a piè sospinto. Come i “fedeli” che assistono alla proclamazione di un nuovo Papa. Archiviati i They Might Be Giants, rimane comunque alto il fattore nostalgia. In un certo senso, sembra che il calendario di questa terza giornata di festival sia stato compilato tenendo d’occhio un giornale del millenovecentoottantacinque. Arriva, infatti, anche l’ora dei Gang Of Four. La loro reunion era talmente nell’aria (grazie anche al florilegio di imitatori e presunti figliocci che sono assurti all’onore delle cronache degli ultimi anni) che trovarseli sul main stage non sorprende praticamente nessuno. Il loro concerto è piuttosto altalenante, o così me lo fa sembrare la stanchezza accumulata in tre giornate (e nottate) vissute molto intensamente. Se dal punto di vista strumentale la band sembra in gran forma, non si può dire lo stesso del cantante. Spesso fuori tono e fuori luogo, finisce per compromettere gran parte dell’esibizione. Peccato, perché i pezzi di “Entertainment!”fanno sempre la loro porca figura, e sarebbe stato lecito aspettarsi molto di meglio (nonostante l’esaltante “finalone”). La cantante dei Go Team! è sul palco da cinque minuti e sembra una versione, di colore e molto più carina, di Samuel dei SubsOnica misto ad un animatore di villaggio turistico. Non fa altro che agitarsi, ed agitare il pubblico, chiedendo di muovere le mani a tempo e seguire le sue improvvisate coreografie. Nonostante questo (o soprattutto per questo), dal vivo risultano più che piacevoli. Sono più asciutti e banalmente rock, rispetto alle loro prodezze “di studio”, ma molto divertenti e di forte impatto. Il loro “bastard-pop suonato” finisce per diventare un qualcosa di più normale (chitarre elettriche, beat hip hop, voce soul e – pochi - campionamenti assortiti), ma nessuno sembra accorgersene. Tutti sono qui per dondolare la testa e le mani a tempo. E per urlare: “Go Team! Go Team! Go Team!”. Riemergere dopo un set del genere, sudato ed ancora più stanco, e trovarsi di fronte una band come gli M83 è un’esperienza ai confini della realtà. Il ritmo, il buon umore e la spensieratezza diffusi poco prima dai Go Team! finiscono per trasformarsi in qualcosa di diverso e totalmente opposto. Se poco prima a trionfare era la “cassa grossa”, ora è il turno del cesello. Umbratili e dilatati come su disco, gli M83 ci guidano verso quella che secondo i piani dovrebbe essere la vera fine del Primavera Sound 2005. Il dj set di Erlend Oye dei Kings Of Convenience. Pare che il nostro eroe abbia firmato un contratto con “Il Capo del Mondo” per concludere tutti i festival europei by himself. E così, eccolo qui ad agitarsi sul palco alle prese con le sue selezioni che vanno dagli Human League a Bruce Springsteen, senza tralasciare le sue “hit” da solista e momenti che strizzano l’occhio alla dance vera e propria. Sono le cinque del mattino, la gente è esausta. La stanchezza è visibile sui volti degli improvvisati ballerini, come in quello dello stesso Erlend. Eppure nessuno sembra volersi schiodare. Erlend, dal canto suo, coinvolge alcuni Broken Social Scene che, incappucciati, si cimentano nell’inedito ruolo di cubisti. Il sole sorge inclemente, lo show sta per raggiungere il suo apice, ma gli addetti al palco ne hanno abbastanza e staccano le casse. Il cantante/dj/ballerino – soprattutto- prende il microfono, ed in piedi sulla console cerca di cantare una canzone di commiato. Ma niente, non c’è tempo. Il Primavera Sound è finito. Erlend alza le mani al cielo e saluta. Finalmente si dorme. QUARTO GIORNO (la festa e la sua conclusione)Ed invece no, come tradizione vuole, il festival si riappropria della sua città, grazie ad una tripletta di concerti in quel dell’Apolo, spazioso e molto confortevole club che si trova in pieno Barrio Chino. Sul palco ci sono i Richmond Fontaine e, udite udite, i Broken Social Scene. Di nuovo. Se i primi si dimostrano dei buonissimi epigoni degli Wilco e finiscono per convincere molto più che su disco, sono i secondi (e ci mancherebbe) a catalizzare tutta l’attenzione dei presenti. Richiamati all’ultimo per sostituire i 50 Foot Wave (la nuova band di Kristin Hersh), i nostri canadesi preferiti (con l’aiuto degli archi degli altri nostri canadesi preferiti, Arcade Fire) si sbattono come pochi e danno vita all’ennesimo concerto esaltante. Purtroppo, però, l’organizzazione è inclemente e dopo soli quaranta minuti (in cui vengono eseguiti molti brani che troveranno spazio nel nuovo album), la band viene rispedita a casa. E noi con loro. E’ infatti prevista all’Apolo una serata disco-gay, e secondo i gestori del locale questa popolazione potrebbe non trovarsi d’accordo con il pubblico indie. Mentre abbandono il club, indeciso se proseguire la nottata oppure gettarmi finalmente alla conquista del letto, rimango divertito ad osservare la colorata moltitudine di persone in fila e penso che è questo il bello di un posto del genere. Di un festival del genere. Mentre attraverso la Rambla del Raval, facendo slalom tra prostitute e pusher, mi ritorna in mente il verso di quella canzone italiana: “In questo presente che capire non sai l’ultima volta non si scorda mai”: Lo so: diceva “non arriva”. Ma come chiosa non sarebbe stata altrettanto efficace. Al prossimo Primavera.
Atto primo:
Il giovane cronista prende il telefono. E’ visibilmente emozionato. Mentre compone il numero pensa a quante volte ha ascoltato questa voce su disco, alla volta in cui lo ha visto dal vivo, e a quelle in cui si è ritrovato, con gli amici, a cantare a squarciagola Here. Il telefono suona libero. Il giovane cronista è carico ed emozionato.Vuole fare una grande intervista, o per lo meno una buona. Anche mediocre non sarebbe male. L’importante è non farsi attaccare il telefono in faccia o subire la cosiddetta “maledizione di J Mascis”. Il telefono continua a squillare. “Non risponde”. Il giovane cronista è sconsolato. Parte la segreteria. Stephen Malkmus non c’è. Bisogna chiamarlo più tardi. Atto secondo:Il giovane cronista prende in mano il telefono per l’ennesima volta. Nelle ultime ventiquattro ore ha provato a richiamare il numero decine di volte. Di Stephen Malkmus ancora nessuna traccia. L’ufficio stampa cerca di trovare spiegazioni. In realtà nessuno sa cosa sia successo. Il telefono suona libero. Il giovane cronista si è ormai messo l’anima in pace. Ormai non crede più alla possibilità di portare a casa questa intervista. Stephen Malkmus, l’ex cantante dei Pavement, ha appena pubblicato un nuovo album solista. Avremmo dovuto parlarne, ma… niente, il telefono squilla ancora. Il giovane cronista sta per attaccare quando: “Hello!” Malkmus risponde. L’intervista inizia Ciao Stephen, avevo perso la speranza ormai…
“Eh sì, capisco. Ti chiedo scusa, ma non sai cosa è successo. Ho viaggiato di notte da Portland a New York e sono rimasto bloccato per delle ore in aeroporto. Un inferno. Anche perché non potevo avvertire nessuno, la mia famiglia…” Vero, ho letto sul sito della Matador che stai per diventare padre.
“No, no. Lo sono già! Sono appena diventato papà (ride, ndi).” Beh, devo dire che sei in buona compagnia. Quest’anno anche Lou Barlow e FrankBlackFrancis hanno avuto figli. Potreste farli conoscere e costringerli a mettere su una band. Secondo me, con le royalties potreste vivere di rendita.
“Eh, sì. Mica male (ancora risate). Quasi quasi li chiamo. Comunque essere padre è bellissimo e strano al tempo stesso.” I mmagino che avrai parecchio tempo da spendere in casa, adesso.
“Oh sì. È fantastico. Sai, quando i bambini sono così piccoli e ancora non parlano, non è molto impegnativo stargli dietro. Se non sei la mamma, l’unica cosa che puoi limitarti a fare è prenderli in braccio e portarli in giro, fare le facce sceme. Cose così. Fortunatamente sto approfittando della situazione per lavorare su un po’ di canzoni nuove.” Molte saranno delle ninne-nanne, suppongo.
“Sì, anche. Ogni tanto provo a cantarle qualcosa. Ormai, non faccio in tempo a prenderla in braccio che comincia a frignare e mi guarda con un’espressione strana. Sembra quasi voglia implorarmi di non cantare. Probabilmente non le piaccio! A parte gli scherzi, ho un sacco di tempo da dedicare alla chitarra. Ho già accumulato un po’ di materiale su cui lavorare, solo che non riesco mai a concentrarmi sui testi. Però ti giuro che le parti di chitarra funzionano veramente bene.” Anche questo disco appena uscito è “fatto in casa”. Quando ne ho letto per la prima volta, avevo seriamente pensato che si trattasse di un album chitarra e voce. Un lavoro intimo e solitario. Invece è tutto il contrario.
“Il fatto è che neanche io so mai cosa potrà succedere quando inizio a lavorare ad un nuovo album. Comincio che ho in testa una direzione precisa e finisco con lasciarmi attrarre da soluzioni diverse. Per cui inizio ad usare strumenti diversi, a tirare fuori nuovi suoni, cambiare gli arrangiamenti ed alla fine mi ritrovo con un qualcosa che neanche io mi sarei mai aspettato. Credo dipenda dal mio segno zodiacale. Sono dei gemelli e forse, anche se sono una persona sola, ogni volta che faccio un qualcosa è come se a farlo, effettivamente, fossero due persone. Due persone in una sola.” E’ così quindi che sono nati i pezzi più disco, perdonami la parola, come Pencil Rot e Kindling For the Monster. Sperimentando?“Parli dei pezzi con la drum machine? Sì, anche quelli sono nati senza che avessero una direzione precisa dall’inizio. Sai, ultimamente ho scoperto un nuovo modo di scrivere le canzoni. Prima nascevano sempre con la chitarra. Adesso invece, mi diverto a cercare forme nuove. E’ bellissimo come sia possibile creare una canzone intera partendo da una serie di loop, o da un pattern ritmico.” Mi sbaglio, o per questi pezzi hai preso come modello un modo di concepire le canzoni, per così dire, “europeo”? Strano per uno come te, così fortemente americano.
“Sì, per questo disco ho ascoltato molta musica proveniente dall’Europa. Per esempio, non so se ti ricordi quella band svedese… gli Europe. Loro sono una grandissima fonte di ispirazione per me. Diciamo che più che alla musica europea mi sono ispirato agli Europe (scoppia di nuovo a ridere). Schervavo, eh. Mica ci hai creduto davvero?” No, ma stavo già cantando The Final Countdown. “Face The Truth” è il primo dei tuoi tre dischi solisti ad uscire solo a nome Stephen Malkmus. I primi due erano nati in collaborazione con i Jicks. Cos’è, dobbiamo considerare questo come il tuo primo vero album?
“No, anche se ho lavorato da solo per la maggior parte del tempo, “Face the Truth” non sarebbe mai venuto fuori se non avessi potuto beneficiare dell’aiuto dei Jicks in alcuni pezzi. Ecco, diciamo che questo è un disco di Stephen Malkmus con un sacco di persone che aiutano Stephen Malkmus a seconda delle canzoni. Ci sono io, ma ci sono anche gli altri dei Jicks ed alcuni altri amici e musicisti di Portland.” Proprio la città di Portland sembra avere, ormai, acquisito un ruolo importante nella tua musica. Non so se ti è capitato di leggere la guida scritta da Chuck Palahniuk sulla tua città (in Italia edita da Mondadori con il titolo di Portland Souvenir). Secondo quel libro, Portland sarebbe una città bizzarra in cui tutto può accadere. E’ veramente così, com’è viverci?“Sono ormai sette anni che sto lì e devo dire che è un bel posto. In realtà non così stramba come dice lui. Un po’ eccentrica lo è sicuramente, ma è comunque una città in cui è molto facile vivere. Solo adesso sta diventando come tutte le altre città dell’America, in cui c’è molto caos, molte macchine in giro… ogni giorno nascono nuove band… Per me non è un problema, io sto in un quartiere molto tranquillo, vicino a me abitano dei signori anziani ed un dottore. Io per loro sono solo ‘il tizio che suona il rock and roll ed abita nella casa all’angolo’. Loro non danno fastidio a me ed io non do fastidio a loro.” Non ti manca affatto New York?“Beh, ora sono qui. Ho un piccolo appartamento che divido con altre persone e ci torno quando posso. Diciamo che New York non è proprio il posto ideale per vivere quando si ha una…ehm… famiglia. Gli appartamenti sono più cari, è la vita in genere che lo è. Portland da questo punto di vista è molto più tranquilla, quasi hippie. Stando lì abbiamo potuto fare il parto naturale, cosa che a New York non sarebbe stato proprio possibile.” Quanto tutta questa calma ha influito sui testi dell’album? A me sono sembrati sempre molto ben scritti ed ironici. Anche se un po’ più seriosi rispetto al passato. E’ il segno dei tempi che corrono, oppure una scelta legata più alla crescita personale?“Sicuramente la seconda. Cerco sempre di essere molto accurato nella scrittura dei testi, anche se… non capisco tutta questa ricerca della ‘sincerità’ a tutti i costi. Secondo me la sincerità è un valore un po’ sopravvalutato. C’è questa idea che i cantautori siano degli stregoni, le uniche persone al mondo a conoscere la ‘verità’, le uniche persone in grado di far credere alla gente cosa è giusto e cosa no. A me questo non interessa, io non voglio scrivere canzoni ‘credibili’, voglio scrivere canzoni emozionanti. Emozionanti per me e per chi le ascolta, ma soprattutto per me” Quanto conta la tua esperienza di lettore nei testi che scrivi?“In realtà non molto, sono più le cose che mi succedono, la musica che ascolto e le apparecchiature che uso per registrarla che m’influenzano (ride, ndi). Comunque leggere mi piace molto, anche se ultimamente non ho trovato nulla di nuovo che mi ha fatto perdere la testa. Un libro che mi ha molto divertito è Lucky Jim di Kingsley Amis, il padre di Martin Amis. Poi mi è piaciuto The Public Image di Muriel Spark, una scrittrice inglese. Tra l’altro il libro è ambientato in Italia, però… che ti devo dire, la mia immaginazione è sicuramente più stimolata dalle cose che ti ho detto prima che dalla lettura.” Che ruolo hanno le apparecchiature che usi per registrare? Cos’è, hai scoperto anche tu la tecnologia? Immagino che questo disco sia stato fatto con ProTools…“No, no no. Scherzi? Quella roba non fa per me. Tutto quello che uso io dev’essere analogico. Lo so che adesso non lo fa quasi più nessuno, ma a me piace così. Non c’è spazio per il programming nella mia musica e nemmeno per le ‘macchinette’ che rendono intonata la voce. Ma questo mi sembra evidente, basta sentire come canto male (scoppia di nuovo a ridere, ndi).” Hai visto cosa sta succedendo nel mondo della musica indie? I Modest Mouse hanno venduto un milione di copie e molti gruppi underground vengono chiamati a suonare in show e serie televisive come The O.C. Mi viene da chiedere cosa avrebbero potuto fare ora i Pavement, se solo suonassero ancora insieme. Pensi che avreste potuto ottenere un successo più grande?
“Probabilmente avremmo suonato anche noi in The O.C. Anche perché non penso sia così difficile finire in una loro puntata. Ovviamente scherzo, sono rimasto molto colpito da quello che è successo ai Modest Mouse. Un milione di copie, ti rendi conto? E’ tantissimo, ed in pratica loro lo hanno raggiunto grazie ad una canzone sola, ma non c’è una spiegazione logica per questo. Non significa nulla, non è significativo di un buon momento per il ‘movimento indie’. E’ solo un caso. Anzi un miracolo. Un vero miracolo, lo stesso che aveva fatto vendere cinquecentomila copie ai Breeders. Vuoi sapere se sarebbe potuto accadere lo stesso con noi? No, per diversi motivi. In primo luogo noi non avevamo dietro le spalle una ‘major major’ come la Sony. Secondo: non avevamo la ‘canzone perfetta’. Ne abbiamo scritte tante di buone, ma quella perfetta mai. E va bene così: in fondo ci siamo divertiti ed avevamo un buon numero di fan, questo mi basta.” Ultimamente si stanno riunendo tutti, ora anche i Dinosaur Jr. In pratica mancate solo voi e gli Husker Dü. Non vi passa proprio per la mente l’idea di tornare insieme?
“Credo che si riuniscano anche loro. Ma sai, per i terzetti è più facile. Anche per i quartetti come i Pixies, ma riunire un gruppo di cinque persone…è difficile, difficilissimo. Il problema è il quinto uomo, non si trova mai, non si sa che fine abbia fatto. Il quinto uomo manca sempre e per colpa sua non ci si può riunire.” Dai, sul serio: neanche la ristampa di “Crooked Rain, Crooked Rain! e l’attenzione che ha suscitato vi ha fatto pensare per un secondo di riformare la band? Sono passati quasi sei anni e c’è un sacco di gente che non vi ha mai visto e potrebbe ascoltare la vostra musica per la prima volta. Com’è accaduto per i Pixies, ad esempio.
“Sì, ma… io ho visto i Pixies lo scorso anno e fra qualche settimana suoneranno di nuovo qui a New York. Li ho visti e non ho quale sia la relazione tra quello che stanno facendo loro adesso e la musica. Non so perché lo stiano facendo, ma l’impressione è che dietro ci sia solo una questione di soldi ed io non voglio che per noi sia così. Potrebbe succedere di vedere i Pavement di nuovo insieme, magari per un concerto. Ma non ora e neanche fra cinque o dieci anni. E soprattutto non, noi non siamo mai stati un gruppo in grado di smuovere un grande business, per cui se ci riuniremo sarà solo per divertimento. Quando ci andrà lo faremo, ma non accadrà prossimamente.” OK, OK. Cercavo di convincerti ma non ci sono riuscito. Ho letto però che ti sei ritrovato con qualcuno della band per registrare il nuovo Silver Jews. Giusto?
“Sì abbiamo collaborato al nuovo disco di David. Secondo me è venuto fuori qualcosa di veramente bello, anche se non ne so molto. Io sono stato lì per una sola settimana e poi sono tornato a casa per finire il mio disco. Ultimamente sono molto impegnato con le mie cose e questo mi rende felice. C’è la promozione di questo album da fare, il tour da preparare ed un altro disco, per cui ho già preso un anticipo da un etichetta europea, da finire. Un sacco di cose e poi… ovvio…c’è la bambina.” Allora ti lascio andare alle tue cose. Ultima domanda: tempo fa ho letto che il tuo obbiettivo massimo è quello di scrivere una canzone bella come Oceans dei Velvet Underground.Ci sei riuscito?
“No, però penso di essere riuscito lo stesso a scrivere belle canzoni. Belle in maniera diversa, ma comunque belle… decenti, quantomeno.”
Il bello delle canzoni è che ci puoi fare quello che vuoi. Sempre. Puoi storpiarle o tentare di riprodurle fedelmente, puoi provare a riscriverne il testo secondo quelli che sono i tuoi umori del momento oppure cantarle “ a pappagallo”, come si faceva da bambini con le poesie. Soprattutto quelle di Natale. Soprattutto quelle recitate in piedi sulla sedia, in attesa che un parente più clemente degli altri sganciasse una mancia degna di questo nome. Il fatto è che le canzoni (quelle belle) sono fatte apposta per rimanere attaccate al cuore ed alla testa delle persone, ci mettono pochissimo tempo ad abbandonare il privato di chi le ha scritte e trasformarsi in qualcos’altro. Qualcosa di diverso, ma altrettanto significativo. Nel 1996, in Italia, le radio davano ancora un po’ di spazio alla “nostra musica” e poteva capitare di spendere serate intere attaccati ad un apparecchietto a transistor, giusto per scoprire quali fossero i dischi da non perdere assolutamente e le novità da seguire con attenzione. Per anni non sono mai uscito di casa quando andava in onda Planet Rock. Ve lo ricordate Planet Rock, no? Lo trasmettevano sul secondo canale nazionale ed era un vero “miracolo”: uno show che senza soluzione di continuità ti faceva ascoltare un brano di musica elettronica sperimentale seguito dal singoletto della band britpop di turno, programmava per il martedì un concerto dei Pavement e per il giorno dopo uno dei Guns ‘n’ Roses. Così, senza barriere o limitazioni di sorta. Nell’estate di quell’anno, gli autori del programma si erano inventati uno strano sistema per valutare i dischi in uscita: una strana scala di valori che partiva dal “disco valido” (appena sufficiente) ed arriva al “disco pentavalido” (capolavoro assoluto). La sera in cui “Harmacy” dei Sebadoh venne riconosciuto per quello che è, vale a dire un disco che dovrebbe essere distribuito con il latte la mattina in quanto necessario e nutriente, trasmisero anche un pezzo da “Martin & Me”, il primo lavoro solista di J Mascis. Era una cover degli Smiths (The Boy With a Thorn in His Side) eseguita solo con voce e chitarra. La voce di Mascis e una chitarra chiamata Martin. Per la precisione. Lo bollarono come: “La solita roba”. Il solito J Mascis che non riusciva a reggere il confronto con il suo amico/nemico di sempre Lou Barlow. Invece era tutt’altro: era il racconto di una alzata di testa, la storia di una presa di posizione. Era J Mascis che catturava le canzoni dei Dinosaur Jr e le riportava alla forma privata in cui erano state concepite, era il modo con cui “il nostro” si riappropriava del suo passato e lo trasformava nella prima pietra di quello che da lì in poi sarebbe stato il suo futuro. Ascoltare i brani di “Martin & Me” uno dopo l’altro, fa uno strano effetto, pescati a caso dalla miriade di album pubblicata dai dinosauri nel corso di un decennio (1986 -1996), in realtà sembrano appartenere tutti allo stesso periodo storico, come se fossero stati scritti per l’occasione. Questo è insieme il più grande difetto e il più grande pregio dell’album e dell’intera carriera di Mascis sia con i Dinosaur Jr, sia da solo che in compagnia dei Fog: la capacità di scrivere canzoni immediatamente riconoscibili e capaci di trasformarsi in classici. Canzoni contraddistinte da una sorta di marchio di fabbrica talmente evidente da farle sembrare ognuna il clone dell’altra. Un marchio di fabbrica evidente come forse solo quello di Stephen Malkmus e di Neil Young, ma questo già si sa. Quello che non bisogna far finta di non sapere è che canzoni come Get Me, Thumb e Keeblin non le scrivi se sei uno qualsiasi, canzoni come quelle le fai solo se sei “un grande”. E J Mascis grande lo è stato fin da subito, fin da quando girava l’America in compagnia di gente come i Sonic Youth e gli Wipers, l’epoca in cui veniva chiamato dalle giovani band (per dirne una: i fantastici Buffalo Tom degli esordi) per cercare di dare “il suo tocco”, il tocco del dinosauro, ai loro dischi. Quello che rende “Martin & Me” un disco diverso da tutti gli altri è quel senso di solitudine che riempie tutti i solchi dell’album, una solitudine voluta, cercata ed ottenuta un po’ per riaffermare quella paternità della musica di cui parlavamo poco fa, e un po’ raccontare una vicenda centrale per la storia dell’underground americano e non solo. La storia di un uomo solo al comando.
IL MIGLIORE (E IL PEGGIORE) DEL 2002 Migliore: Luciano/Eriberto Peggiore: Fabio “va in mona” Capello
Non è stato propriamente un buon anno il duemilaedue, mondiali deludenti,Galliani presidenti della Lega...solo il Chievo Verona e il volto perennemente imbronciato del brasiliano triste Luciano, il calciatore precedentemente conosciuto come Eriberto, sono riusciti a non farmi perdere l’amore per il gioco del pallone. Una storia che sa di calcio anni trenta e sembra scritta direttamente da Osvaldo Soriano, un calciatore che per emergere è costretto a cambiare identità e data anagrafica ed una volta arrivato al successo manda tutto all’ortiche perché devastato dai sensi di colpa è l’esatto contrario del calcio multimiliardario e truffaldino dei vari Cagnotti e Zamparini, ma anche di Recoba. Cosa c’è di peggio di un vincente che non riesce ad accettare le sconfitte? Assolutamente niente e Fabio Capello è in assoluto il rappresentante più titolato della categoria. Per questo e per mille altri motivi (il ridicolo comportamento nei confronti di Montella in primis) per me il peggiore del duemilaedue è senz’altro lui. Michel Platini Quando Michel si chiamava “Le Roi” era il mio idolo, uno dei primi poster appesi in cameretta. Mio padre sostiene che a sette anni mi ero messo in testa di scrivere un libro su di lui, poco più che pensieri di bambino: “ Platini è il più forte giocatore del mondo, più di Maradona, è bravo, intelligente e vince sempre, proprio come il mio compagno di classe Francesco…”. Francesco l’ho rivisto qualche giorno fa in metropolitana con tanto di giacca, cravatta e ventiquattrore…uno splendido quarantenne, ma con tre lustri di meno. Finisce sempre così: da piccoli si è brillanti, interessanti e con il mondo ai propri piedi e da grandi si diventa “consulenti globali di Pubblitalia”…oppure amici intimi di Blatter. Ora l’unica foto di calciatore appesa nella mia stanza è quella di George Best…una scelta di campo! Zico Le Qualità Della Danza C’era un tempo in cui i ballerini riempivano i teatri, la gente faceva la fila per vederli danzare ed era disposta a spellarsi le mani per un “doppio passo” fatto come si deve. Quando ballava Zico i teatri si chiamavano: Friuli, San Siro, Comunale ed Olimpico. Nessuno di questi era La Scala: al posto del legno c’era l’erba, le poltroncine erano scomodi sedili di plastica e non confortevoli sedie di velluto imbottito, per entrare non serviva lo smoking tanto nessuno aveva il tempo di guardare i vestiti . Quando ballava Zico se eri bravo, ma bravo davvero, minimo minimo finivi al Bolshoi, adesso ti va bene se ti lasciano un posto nella accademia di Amici di Maria De Filippi…che i coreografi sono tutti nell’altra stanza ad applaudire il primo Gattuso che capita. Marco Van BastenIo Van Basten lo odiavo!! Come direbbe il mio amico Marco: “Uno così lo fermi solo con i calci”. E difatti solo i calci lo hanno fermato, quelli inferti dai bisturi più di quelli dei difensori. Ho chiari nella memoria gli epici duelli con Kohler e Pietro “Zar”Vierchowod, per non parlare dei goal splendidi che per elencarli tutti non basterebbe la durata media di un film di Kierostami. Van Basten era la cosa più vicina alla perfezione che io abbia mai visto in un campo di calcio, il centravanti che tutti vorremmo vedere nella propria squadra del cuore, ma giocava per il Milan…ed io lo odiavo! Come odiavo i tifosi che dei suoi numeri perfetti potevano goderne e non solo soffrirne come il sottoscritto, un sentimento che neanche anni di Papin, Kluivert, Bierhoff e Jose Mari sono riusciti a sopire. Lo odiavo ma quando ha smesso di giocare per poco non piangevo…com’è che diceva quella canzone? Ah ecco: “…E’ odio mosso d’amore…”. Diego Armando Maradona
Penso che canzoni come “Debaser” le scrivi solo se hai“il tocco”e penso che se hai“il tocco”poco importa se fai successo oppure no. Frank Black lo sapeva che non sarebbe mai diventato una rockstar: grassoccio, carattere difficile,troppo chiuso dentro se stesso, ma qualche soddisfazione deve essersela certamente tolta. D’altronde creare una raccolta di perle come “Doolittle” equivale a vincere un campionato del mondo di calcio e “Where is my mind?” è come farlo dopo che in semifinale hai segnato il goal più bello della storia. L’unica cosa che non so perdonare a Francis è il non essersi messo da parte nel momento giusto, il voler dimostrare a tutti i costi che uno come lui non può scoprirsi improvvisamente mediocre. Frank lo sappiamo che non sei un mediocre, ma ti prego smetti…smetti giusto l’attimo prima di diventare Maradona, cuore a pezzi, sulla spiaggia dell’Avana. Con la differenza che Diego sul tetto del mondo c’è salito per d’avvero…e sarà dura farlo scendere. Champions League 2003
Andrij Shevchenko poggia la palla sul dischetto del rigore: “Il nano pelato ha detto che questa vittoria sarà come un voto di fiducia per il suo governo…”, fa l’Armando mentre Sandro Piccinini ci ricorda di acquistare il settimanale Controcampo. Elio ha gli occhi fissi sul televisore, la Juventus ha già fallito tre rigori:“Ma guarda che faccia, l’ucraino!!!Figuriamoci se sbaglia…”dovrei dire qualcosa anche io, ma si sa in certe situazioni mi si azzera la salivazione e infatti: “Vado a prendere le birre?”. Mentre armeggio con il tappo di una pessima Poretti mi perdo la scena madre: Sheva prende la rincorsa, guarda negli occhi Buffon e tira. Un tocco soffice e vellutato che spiazza il portiere e…si stampa sul palo! Ora tocca al vecchio Ciro Ferrara:per lui rincorsa breve e…goal!! Dida non può fare nulla. L’ultimo rigore è per Paolino Maldini, il grande capitano. Si capisce subito che qualcosa non va e difatti il pallone sorvola la traversa : “Come Baggio nel 1994!!!” urla l’Armando mentre si alza in piedi e stappa una bottiglia di spumante. La Juve vince la coppa, Berlusconi (Silvio) non regge allo shock e si dimette, il figlio “Dudi” cade in depressione e viene abbandonato dalla “Letterina”…è andata così no? Campionato italiano 2002/2003 A perdere i campionati non ci si abitua mai, figuriamoci quando succede all’ultima giornata e per giunta dopo essere stati in testa alla classifica per mesi. Oddio se fossi dell’Inter probabilmente sarei preparato ad affrontare una cosa simile, ma grazie a dio non lo sono ed è una sensazione del tutto inedita. Eppure sembrava tutto perfetto, questo doveva essere l’anno buono…l’hanno detto anche da Biscardi. Lo so verso gennaio c’era stato un momento di flessione però poi la squadra aveva reagito bene. L’allenatore aveva saputo riprendere le redini con fermezza e decisione, superata la crisi i goal de “l’uomo di ferro” hanno fatto il resto, per non parlare delle perfette geometrie del centrocampista centrale, geometrie che se fossi Mario Sconcerti non esiterei a definire cartesiane. Ma Sconcerti non sono e purtroppo un campionato memorabile è andato alle ortiche per colpa di una partita mediocre contro una squadra mediocre. Vorrà dire che ci riproveremo il prossimo anno…tra l’altro mi hanno detto che hanno ripristinato la serie A! Grazie Doria…bentornata! Io mi pento spesso:
mi pento di non essere andato a Firenze a vedere Springsteen, mi pento di aver acquistato il primo numero del Rolling Stone italiano, e di aver pensato,anche solo per cinque minuti, che: Melissa P fosse una scrittrice, Muccino un regista e David Platt un allenatore. E poi: mi pento di non aver visto Capossela a teatro, mi pento di aver consigliato ad un amico lo spettacolo di Air più Baricco, mi pento di essermi comprato pure il disco (sempre di Air più Baricco) e soprattutto mi pento di aver visto più di una puntata de : “L’Isola dei Famosi”. Insomma, mi pento di un sacco di cose, ma di quelle che ho scritto per Oltre La Traversa proprio no.Anzi: mi pento di aver detto che Diego Armando Maradona ha segnato il goal più bello della storia del calcio durante le semifinali di Mexico 86…erano i quarti di finale, maledetto testone!!.
"They play me on the radio and that's the way I like it..."Che poi, in un certo senso, spiega tutto questa frase qua sopra e quello che vi apprestate a leggere non vuol dire niente. Forse. La storia è molto semplice: tra la fine del 2004 e l'inizio del 2005, proprio nel periodo dei pandori/panettoni/partite a carte/cinte slacciate per il troppo mangiare/baci sotto il vischio e "...meno nove, meno otto, meno sette...", i Julie's Haircut si ritrovano in casa per registrare delle canzoni (quasi) in acustico da regalare in dono a sette radio selezionate in lungo e in largo nella penisola. Detto così non è niente di nuovo. E' un po' quella cosa che John Peel (pace all'anima sua) ha fatto per anni. Seppure in maniera diversa. La novità sta in un gruppo di persone che si tirano dietro la porta (con gli annessi e connessi psicologici/filosofici che questa cosa comporta e che non spiego. Non sono Gigi Marzullo, anche se come capelli siamo lì) e decide di tenersi dentro solo uno sparuto numero di amici e collaboratori. Un po' come affermare che far quadrato in certi momenti è una cosa importante. Che riacquistare l'intimità delle quattro mura, magari dopo un anno speso a fare su e giù dai palchi, ogni tanto è una cosa necessaria. Il bello di queste session sta proprio nel seguire questa idea d'intimità e cercare di renderla pubblica senza lasciarla snaturare. E poi ci sono le canzoni. Canzoni che avevano bisogno di prendersi altri spazi che non sono quelli angusti e stretti (e tondi) dei compact disc (i vinili sono un'altra cosa, nei vinili c'è più aria). Canzoni che vanno ascoltate, registrate e regalate agli amici. Oppure: passate in mp3 e diffuse via internet in barba a tutti i decreti di questo mondo conosciuto, urbani ed extra urbani. Fatelo. I Julie's non vi dicono di no. Per un sacco di motivi, ma soprattutto perché se lo meritano. Canzoni vecchie (Chip And Fish Brain), nuove (In The Air Tonight, The Big Addiction, The Last Living Boy In Zombietown) e nuovissime (First Drop Of Morning Sun). Ascoltate una di seguito all'altra in queste versioni inedite, spogliate di tutti gli orpelli ed arricchite di nuovi colori, sembrano il perfetto viatico per capire i Julies che furono e quelli che saranno. L'impeto punk del passato e quello pop del presente letti in una nuova chiave di lettura. Una chiave diversa, ma non meno interessante, che passa anche per la riscoperta di alcuni classici. Breathe dei Pink Floyd ("I Pink Floyd!! Ma non eravate un gruppo indie?"), che a suo modo è quasi uno standard. Una canzone che fa parte (volente o nolente) del dna di tutti quelli che nella loro vita hanno avuto a che fare con chitarre, bassi, batteria e quant'altro. Walkin' With Jesus degli Spacemen 3, che più che una cover l'atto d'amore di una band nei confronti di un'altra. Un po' come dare a Cesare quello che è suo. Ed allo stesso tempo tenersene un pezzo. Broken Imaginary Time dei Soundtrack of Our Lives. Un gruppo che solo per il nome che si è scelto meriterebbe un posto in paradiso ed invece si ritrova ad essere quasi ignorato. When Tomorrow Comes. Gli Eurythmics. Che poi sarebbero un gruppo degli anni ottanta. Peggio: un gruppo pop degli anni ottanta. Uno di quelli super noti, per giunta. Una canzone che fa parte del bagaglio genetico di una generazione e che ristabilisce un grande assioma: Una bella canzone è una bella canzone. Alla faccia delle etichette, i suffissi e i prefissi che spesso si divertono ad attaccare alla musica che ci piace. In pratica, Home Environment è la monetina per accedere al juke box privato dei Julie's Haircut. Sta a voi decidere se spingerla o no nella fessura. Ed anche in questo senso: spiegava tutto la prima frase.
Primavera Sound Estrela Damm Festival 2004 A Barcellona “il mattino ha l’oro in bocca”, ed è cosa chiara ai più. Te ne accorgi subito appena sceso dall’aereo guardando le facce cordiali e segnate dalla vita tipiche dei catalani. Te ne accorgi quando metti piede per la prima volta nell’area dedicata al festival e subito ti trovi invischiato in una serie di operazioni difficili da espletare ed essenziali per andare avanti. L’organizzazione del festival prevede delle formalità burocratiche a cui sottostare: e poco importa che tu abbia sullo stomaco una serie indefinibile di birre allungate con la limonata e cibo (ottimo) di varia specie. Però, si sa, la rigidità è spesso sinonimo di perfetto sincronismo e controllo totale della situazione ed il Primavera Sound è per questo aspetto l’eccezione che conferma e rafforza la regola. Mai vista una tre giorni così caotica e così perfettamente gestibile. Una vera e propria anomalia. Una preziosa anomalia. Primo giorno: 27/05/2004 Una volta entrati nei pressi del Rockdelux stage (il secondo palco in ordine di grandezza) si rimane immediatamente colpiti dalla stranezza del venue. Una specie di stranissimo paesello medioevale ricostruito nei pressi del Montjuic. I primi ad inaugurare le danze e rompere il ghiaccio con l’ancora esiguo pubblico sono i Love of Lesbian. Catalani, i nostri sembrano subito a loro agio sul palco ed allietano la platea con il loro sound che unisce sonorità di stampo indie americano con il gusto pop tipico delle band spagnole. Scherzano (“Ciao, siamo contenti di suonare per voi. Dimenticavo: ci chiamiamo Pixies”) e divertono. Subito dopo è il turno di Refree, sempre dalla Spagna. Cantautore dai tratti oscuri e rarefatti (una strana via di mezzo tra Will Oldham e i Death In June), propone uno show intenso anche se decisamente monocorde. Passa in fretta e lascia il palco a La Buena Vida vero e proprio mito del pop indipendente a righe orizzontali gialle e rosse. La loro musica ricorda prepotentemente quella di band come Delgados e Slowdive. Una via dolce e rarefatta allo shoegaze. Il tempo di fare un salto ad un altro stage dove il VeraCruz Sound System fa ballare la folla con Hey Ya! degli Outkast ed è già il turno dei Pretty Girls Make Graves. Uno dei nomi più attesi. Il loro stile è sempre il solito: una fusione nervosa ed urticante di sonorità emo core e rock and roll. Il concerto alla lunga si rivela piuttosto noioso ed è un vero peccato che un tale sfogo di energie riesca a lasciare nell’ascoltatore poco o nulla. Ma chi se ne importa: siamo qui per Dizzee Rascal e per ballare. Il concerto del pischello dalla lingua più veloce del mondo è divertente e di alto livello. Peccato che (nonostante i freestyle tra una canzone e l’altra) sia durato veramente poco. La serata giunge al culmine con il dj set dei fantastici 2 Many Dj’s. Preso il possesso della console con un intro rubata direttamente al Ritual De L’Hobitual dei Jane’s Addiction e sconvolto la folla con estratti da un album degli Slayer, i nostri optano per un set più classicamente house che raggiunge il suo massimo punto di catarsi emotiva con il mash up tra Daft Punk e Clash. Il tutto si chiude con Breed dei Nirvana sparata a volume da audiolesi. È impossibile restare fermi ed infatti nessuno ci resta. Miss Kittin è già sul palco che scatta foto alla gente… Secondo giorno: 28/05/2004 Arrivo al festival in tempo per un po’ di Dayna Kurtz (cantautrice in bilico tra Black Heart Procession e Nora Jones, niente di che) e per l'inizio del concerto dei Raveonettes. Esattamente come me li aspettavo: rock and roll, glam e noisy al punto giusto, giocano a fare Ike and Tina che giocano a fare i Jesus And Mary Chains. La cantante si fa notare per una fantastica maglietta: "Italians Do It Better" e per altre innumerevoli qualità che non sto qui a raccontare (ehm ehm....). Non resto fino alla fine del set: la consapevolezza che, ad un paio di salite di distanza, uno degli eroi minori del sottoscritto stia finalmente per calcare le scene, mi spinge lontano da li. Sto parlando di David Freel, meglio conosciuto come colui che si grava pesantemente di un fardello di nome Swell, una band che conoscono sì e no in quattro persone ma che vale assolutamente la pena di scoprire. Lo show è sorprendente: nervoso e rilassato al tempo stesso, forte di quella sgarrupatezza tipicamente indie americana che tanto ci piace. Il Nasti Stage (un invivibile ed angusto tendone) è popolato da un buon numero di persone che (incredibile ma vero) cantano a squarciagola brani come Sunshine Everyday ed Oh My My. Una conferma. Giusto il tempo di una clara ed è gia ora degli attesissimi Franz Ferdinand. Il concerto mi piace gran lunga di più di quello visto in Italia qualche mese fa. Gli spagnoli saltano come pazzi ad ogni canzone e non esitano ad esprimere il loro disappunto quando, saltato l'impianto, i FF continuano a suonare (evidentemente le spie funzionavano) come se nulla fosse successo. Incredibile osservare le facce dei componenti della band che, non essendosi accorti di quello che stava accadendo, esternavano angoscia e stupore (insomma, la tipica faccia da: “Oddio, mi sa che stiamo facendo proprio schifo”) per la reazione veemente del pubblico. Risolti i problemi si prosegue senza un attimo di pausa fino a Darts Of Pleasure che, come al solito, genera delirio collettivo al momento del "superfantastico" coro finale. Causa stanchezza, decido di arenarmi nei pressi del main stage in attesa dei Mudhoney, perdendomi così il concerto di Sun Kil Moon (il pittore Mark Kozelek con Tim Mooney del club americano della musica). A quanto mi è stato detto: uno dei momenti migliori del festival. Quando salgono sul palco i Mudhoney ho la sensazione grandissima di trovarmi all'interno di un grandissimo paradosso: è la prima volta che li vedo ma so esattamente cosa aspettarmi. Le attese infatti vengono totalmente confermate: grezzi, sfacciati ed ironici come solo i Mudhoney sanno essere ed infatti sono (fantastico intermezzo di Mark Arm alle prese con uno pseudo rockabilly di trenta secondi mentre Guy Maddison, al basso, si cimentava con l'imitazione delle movenze di Angus Young/Jack Black, fate voi). Ma come dice Samuele Bersani: “Nella vita c'è sempre un però” ed il però dei Mudhoney si chiama una acustica decisamente insostenibile (per capirci: le chitarre si sentono bene solo nei primi tre pezzi, poi da quelle stramaledette casse incominciano ad uscire solo bassi... e stiamo parlando di un concerto totalmente impostato sulle chitarre) che mi fa reggere fino al momento di ascoltare alcuni classici, ma poi la noia prende il sopravvento e decido di spostarmi sotto l'angusto tendone di poco sopra, per andare a vedere la fine di Casiotone For The Painfully Alone. Non riesco ad entrare e sento tre pezzi del suo concerto seduto su una panchina, tre pezzi in cui Owen Ashworth si becca tutti gli appellativi possibili (da "capo dei Nerd", a "Ciccio Bombo cannoniere", passando per il più suggestivo "Daniel Electro Johnston"). Chi era dentro mi racconta di laptop e tastierine (Casio, oh yeah) disposte a semi cerchio e di un concerto nel complesso per niente male. A seguire ci sono i The Russian Futurists, quintetto canadese estremamente elettro-naive che intrattiene il pubblico divertito con melodie non prive di grazia ironica. Nel frattempo, al Rockdeluxe Stage suonava James Chance and The Contorsions. Grandissimo impatto e grandissimo suono: funk bianco ed avanguardia fusi insieme per "lo zio dei !!!", un concerto che si preannuncia bello ed imperdibile ma che abbandono solo dopo due pezzi. Questione di scelte. Ecco, lo so, adesso voi "guardiani della fede" comincerete a blaterare che non si può mollare un concerto del genere per andare a vedere una band che "fa canzoni", solo delle banalissime canzoni, sostenendo che qui c'è la storia della musica, che non capisco un accidenti e che James Chance forse non avrò mai più occasione di rivederlo. Ed avete ragione, avete proprio ragione. Ma per me la musica è questione di emozione, cuore e cervello ed i miei organi vitali quella sera volevano questo. Volevano gli Wilco. Perché questo è il suono che mi accompagna da un sacco di tempo, perché Jeff Tweedy canta in un modo stupefacente, perché la sua faccia rovinata dall'abuso di medicinali e la sua attitudine valgono più di qualsiasi altro evento imperdibile. La formazione comprende due chitarre, un polistrumentista che si divide tra violino, percussioni ed anche lui chitarre, un tastierista, un bassista-percussionista-tastierista-seconda voce e Glenn Kotche assoluto dominatore della batteria. In scaletta si alternano i brani di Summerteeth, Yankee Hotel Foxtrot e del nuovissimo A Ghost Is Born. Decido di emozionarmi, decido di sprecare un po’ di fiato per cantare e per ingaggiare con una giornalista spagnola un discorso pseudo filosofico (molto pseudo) sul testo di I'm Tryng To Break Your Heart, decido di aver assistito ad un concerto splendido. Per intensità e suoni, uno dei più belli visti a Barcellona. Decido che sono soddisfatto e mi metto ad aspettare i Pixies (di cui si parla più diffusamente qualche pagina più avanti). Invece no, non ce la faccio. Guardo il programma, teso e concentrato come uno scommettitore in procinto di scegliere i cavalli per la tris. Individuo il mio cavallo vincente, si chiama Electrelane e sta già scalpitando nell’affollatissimo Nasti Stage. Le quattro giovani di Brighton danno vita ad un live di grandissimo impatto, supportate da pezzi davvero eccezionali (tanto dall’ultimo strepitoso “The Power Out” che dall’esordio “Rock It To The Moon”), che si prestano a delle versioni live mozzafiato. Rachel al basso, concentrata ed impassibile, Emma alla batteria picchia duro ma con quella grazia alla Keith Moon, Verity si alterna tra chitarra e tastiere, e canta; inglese, francese, e spagnolo… Oh Sombra! la cantano tutti. Ma la reginetta della festa è la chitarrista Mia Clarke, che a vederla sembra una di quelle classiche inglesine-carine-biondine-occhiazzurri-taglia42, che ti aspetteresti di trovare un sabato pomeriggio dentro lo Shopping Centre di Brighton, tra H&M ed Accessorize, intenta nella ricerca del gingillo da indossare la sera al club. E invece è li sul palco a straziare la sua chitarra, a suonarla ad una velocità da ritiro della patente, a guardare in faccia chi dalla platea non riesce a staccarle gli occhi di dosso, e a dar vita, non senza una buona e necessaria dose di ironia, a dei complessi esperimenti di tecnica chitarristica. Terzo giorno: 29/05/2004 Mi dirigo verso la location del festival, e già la malinconia si affaccia a ricordarmi che lo sto facendo per l’ultima volta. Cerco di scacciarla mettendomi ad urlare a squarciagola God is seven!!! Funziona. Appena entro nella piazzetta del Rockdelux, vengo accolto dalla “musa minima del pessimismo cosmico”, ovvero quella Nina Nastasia che un basco vicino a me si ostina a chiamare a voce alta Òla Niña. Il concerto sarebbe ancora più intenso e toccante se solo non fosse così presto (18:30), e se non ci fossero così tante persone distratte ed intente a fare altro. Alle 19:30 sul Nasti Stage è in programma Devendra Banhart. Voglio essere li prima di lui. Guadagno la prima fila senza particolari affanni, ed assisto così, tra una coppia di fan di Milano ed una dark tedesca (tutti e tre incalliti fumatori senza pietà per il prossimo, vi ringrazio, ovunque voi siate), ad una delle esibizioni più intense, toccanti e commoventi a cui abbia mai assistito. Il suo ultimo album è un capolavoro assoluto, ma dal vivo, canzoni quali This Is The Way, It’s A Sight To Be Hold, This Beard Is For Stobhan e Todo Los Dolores diventano ancora più belle, di una bellezza ancestrale, che ti porta così indietro e lontano da farti girare la testa. Quel suo modo di stare seduto come se dovesse scappare da un momento all’altro, quella sua barba lunga, quei vestiti da giramondo e quella voce, tra Nick Drake e Jeff Buckley, struggente e bellissima. Dopo la magia di Devendra, mi muovo ormai con sorprendente familiarità verso l’enorme arena dove è in programma il gran finale del Primavera: Liars, Elbow, PJ Harvey e Primal Scream. I Liars, dopo lo spogliarello iniziale del cantante, presentatosi con uno zuccotto dai colori e disegni grunge, danno vita ad un gran bel live, dimostrando di aver trovato un ottimo affiatamento con il nuovo batterista, vera spina dorsale del nuovo corso dei bugiardi. Dopo di loro, gli Elbow sembrano prevedibili e scontati come i tiri in porta di Del Piero. …E all’improvviso arriva Polly, avvolta da un vistoso vestito giallo e scarpe da sera, si muove sul palco sicura, sorridente e carismatica. PJ Harvey ha voglia di suonare, e lo fa alla grande; qualche vecchio classico, ma molto Uh Huh Her nella scaletta. Il pubblico in estasi gradisce. A seguire, e a chiudere il Festival al Nitsa-Apolo, ci sono i Primal Scream. Anche Bobby Gillespie & Co. sembrano essere sorpresi dalla generosa folla spagnola, e così si mettono a suonare ad una velocità pazzesca, con Bobby che corre incessantemente da una parte all’altra del palco. A questo spettacolo di dinamismo sfrenato fa da contrasto un immobile Kevin Shields, che, pur non guardandosi più le scarpe, passa comunque il tempo a fissare la sua chitarra, assorto e narcolettico, nonostante il putiferio che gli ruota intorno. E così finisce il Primavera Sound, penso. Ma mi sbaglio, e di grosso. Vengo infatti trascinato, intorno alle 03:40, da una folla festante che intona il ritornello di Me And Giuliani Down By The Schoolyard mentre improvvisa una sorta di trenino che mi porta fino all’Escenario Nasti, dove sono appena saliti sul palco i !!!. Che dire, quello della numerosa formazione newyorkese è stato semplicemente il live più dinamico, sorprendente, eccitante e sovversivo del Festival. Mentre il loro disco sembra ingabbiarli, più che dar loro voce, dal vivo rompono gli indugi e spazzano via qualsiasi paragone con altri esponenti del cosiddetto filone punk-funk. Il loro non è un concerto, è una esperienza di catarsi collettiva: i musicisti che si scambiano gli strumenti e si intrecciano sul palco con ordinata confusione, i loro amici Liars in estasi poco più in là, e tutto il pubblico (e quanto!!!) che balla, salta e si contorce come se non fossero ormai le 4:30 del mattino dopo tre giorni di Festival, o, forse, lo fa proprio per questo. Come un immenso fuoco d’artificio finale. (Emiliano Colasanti + Andrea Albensi)
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