Thursday, September 22, 2005

Primavera, estate, autunno, inverno e… ancora primavera



Barcellona – Estrella Damm/Primavera Sound 2005
“…la prima volta fa sempre male la prima volta ti fa tremare”

Arrivo a Barcellona con in testa le parole di una canzone italiana.
Perché?
Non lo so.
Non chiedetemelo
Non è vero che “la prima volta” fa sempre male. E’ solo un luogo comune… soprattutto qui.
Il ricordo della scorsa edizione del Primavera Sound mi ha fatto compagnia per un intero anno.
Nella mia testa, ogni cosa era al posto giusto, tutto era stato perfetto: i nomi in cartellone, la reunion dei Pixies, l’organizzazione, il clima, la location, i !!! dal vivo.
Tutto. Non scherzo.
E’ la seconda volta, invece, a farmi “tremare”.
Il pensiero di vedere un festival crescermi tra le braccia, come un bambino che fino a ieri ho sostenuto perché imparasse a camminare, mi spaventa non poco.

“E se non fosse più come prima? E se stesse per diventare un festival come tanti altri? Se…”

Il Primavera era un festival vivibile. Un Benicassim per pochi eletti.
Ora vuole diventare altro. Il FiberFib di Barcellona, con tutti gli annessi e connessi.
Il Primavera si teneva in una location più unica che rara (uno splendido finto borgo medievale, luogo di scarpinate e di rock and roll). Ora si tiene nel Forum. Enorme ex complesso industriale situato nella periferia della città.
Il Primavera, non è più quel Primavera.
E’ una cosa nuova, da scoprire e da guardare con gli occhi di chi non ha visto niente fino a poco tempo prima.

In realtà basta poco per accorgersi che questi cambiamenti e questo tentativo di far crescere la rassegna non hanno per nulla intaccato quell’atmosfera particolare che si respira solo per le strade di Barcellona.
Perché, c’è poco da fare, il Primavera Sound è il Festival di Barcellona.
E’ fuori dalla città ed al tempo stesso è dentro.
Basta poco, dicevo, per rendersene conto. Basta un giro per le ramblas e buttare un orecchio nei bar, nei negozi, sulle panchine.
Ovunque si respira l’aria festivaliera. Nelle boutique, come nelle videoteche, si ascolta solo il disco dei Maximo Park, davanti ai banconi delle discoteche è tutto un raccontarsi com’era Iggy la prima volta che è venuto in città e com’è ora, che finalmente ci torna.
Barcellona è sveglia ed ansiosa.
Mancano poche ore e tutto, ma veramente tutto, comincerà a suonare.

PRIMO GIORNO

Metto piede dentro il forum e rimango colpito dalla vista di un enorme, strano accrocco sopraelevato. “E’ il pannello solare più grande d’Europa”, mi dice l’uccellino.
Ed io do sempre retta a quello che mi dice l’uccellino.
Tra il pannello solare di poco sopra e il resto ci sono sette palchi.
Solo due attivi oggi, per permettere al pubblico di abituarsi con calma alla sbornia di suoni a cui saranno sottoposti nei prossimi due giorni.
Il più grande dei due escenari (come dicono qui) è il Rock Delux por Lois, una sorta di main stage di riserva del festival.
Tutt’intorno, c’è un piccolo-grande (potevo dire “medio”) anfiteatro con le gradinate che confluiscono nel parterre e una lunga spianata di cemento che arriva fino al palco.
Dietro di questo, niente, solo il mare.
Solo.
Dopo essermi fatto una passeggiata fino al Danzka CD Drome ed aver visto gli ultimi minuti degli It’s Not Not (gruppo un po’ emo, un po’ indie, un po’ punk funk, un po’ tutto) ed essermi fatto grandi risate grazie al cantante che si getta dal palco in un tentativo di stagediving e finisce per inciampare in una scatola di cartone, ritorno sui miei passi per assistere all’esibizione degli Art Brut.
La nuova big thing della scena inglese non delude le aspettative. La miscela, esplosiva, è rock and roll su cui svetta un cantato/parlato tipicamente inglese.
Un po’ Mike Skinner (The Streets) che canta in un gruppo punk, un po’ Mark E. Smith dei Fall.
Anzi, un po’ The Fall e basta.
Hanno un’ora di tempo, ma ne impiegano solo metà, per un set che pesca da quasi tutto l’album di esordio. l loro concerto finisce con il cantante, camicia aperta e pancia formata a birre e superalcolici, intento a tendere le mani verso l’alto e ad invocare “il Dio” Top Of the Pops.
Una pausa veloce e tocca ai Maximo Park.
La band di Newcastle viene accolta da una vera e propria ovazione.
Il faccino pulito ed incravattato di Paul Smith rimane esterrefatto dal calore incredibile degli spagnoli e del resto degli astanti. Uno dopo l’altro, i singoli di “A Certain Trigger”, vengono seppelliti dal singalong collettivo. D’altro canto, la band fa lo stretto necessario per farsi apprezzare: i brani vengono eseguiti pari pari al disco, rivelando però una certa tendenza a semplificare le parti strumentali. Cosa che, purtroppo, finisce per inficiare l’impatto live del gruppo.
La gente però continua ad essere contenta ed in delirio. Contenti loro, contenti tutti.

Mentre sull’altro palco è il turno dei Jesu, band nata dalle ceneri degli oscuri e metallosi Godflesh, comincia a sentirsi forte l’attesa per gli Arcade Fire.
C’è poco da sviare il discorso e fare gli snob, il duo (sono molti di più in realtà, ma osservandoli si ha la sensazione di assistere ad un vero e proprio gioco di coppia) canadese è il gruppo del momento. Quello da sbattere in prima pagina sulle riviste e da tirare fuori come argomento di discussione in una cena tra “inseriti”.
Sul loro “esordio spagnolo” gravita una tensione da evento importante per nulla indifferente.
Tutta la gente è qui per sentirli suonare.
Tutti sono qui per toccare con mano l’ennesimo nuovo segreto dell’indie Fatima, il “mistero” da svelare una volta per tutte, il culto di cui diventare adepti, oppure da abbandonare in caso di passo falso. Loro sembrano non curarsene, giustamente, e danno vita ad un concerto in grado di svegliare dal sonno il più scettico degli scettici.
Sono una macchina perfetta, gli Arcade Fire. Sono epici ed allo stesso tempo essenziali, sono originali ed allo stesso tempo ancorati alla tradizione. Non sono “il gruppo del momento”, come si diceva poco sopra, ma il gruppo in grado di poter cambiare, stravolgere e plasmare sotto il suono della propria musica questo benedettissimo momento.
Le canzoni, quelle bellissime come Power Out e quelle toccanti come In the Backseat, eseguite dal vivo acquistano dieci-cento-mille punti.
Un brano come Rebellion/Lies, finisce per acquisire tutti i cliché dell’inno.
L’anthem di cui il frammentatissimo popolo indie aveva bisogno.
Anche il colpo d’occhio è eccezionale: Win Buttler e Régine Chassagne occupano il centro della scena. Sono loro il vero fulcro del sestetto. Lungagnone, lunatico e sopra le righe lui, eterea, materna ed incredibile lei, che nel corso del concerto si cimenta nel suonare quasi tutti gli strumenti presenti on stage. Una sorta di Bjork senza quel talento e quella vocalità, ma con lo stesso identico magnetismo.
Mentre salutano la folla festante, mi arriva chiaro in testa il pensiero che dopo un concerto così non ci sarebbe niente di meglio da fare che prendere armi e bagagli ed andarsene a casa. Un appartamentino sulla Ramblas del Raval, invaso costantemente dalla puzza di fritto e dal caos della strada sottostante.

Niente di tutto questo: al Danzka ci sono gli Isis ed io non voglio perdermeli.
Ammetto la mia ignoranza: non li ho mai ascoltati, ma da mesi (meglio, da anni) vengo bombardato dai pareri positivi degli amici metallari e non.
Alla fine, avevano ragione loro: gli Isis sono una miscela originalissima di post-rock e metal. Detta così può non voler significare nulla, ma vi giuro che non avevo mai visto niente di simile.
Le canzoni dei Mogwai o dei Godspeed You! Black Emperor, con i suoni rubati allo stoner.
Chitarre distorte e bassi saturi. Granitici, devastanti ed estatici. Una sorpresa, almeno per me.
Mentre Tim Hecker massacra le gonadi al pubblico con il suo ambient-noise, mi sposto nuovamente per vedere il set dei Radio 4.
L’inutilità fatta musica. Una band studiata al tavolino per essere quella giusta nel posto giusto, e che finisce inevitabilmente per sembrare indietro di vent’anni proprio al cospetto di quelle mode che cercano senza coraggio di riprodurre. Irrilevanti, è questa la parola giusta.

Quando sono le tre e quarantacinque e le gambe iniziano a fare Giacomo-Giacomo (o Diego-Diego, come si dice ad Arezzo), ecco che appare sul palco Max Tundra.
Un nano da giardino che ha come personal stylist un non vedente, suppongo, e che riesce a tenermi sveglio e a farmi ridere per una buona mezz’ora.
La sua musica è un po’ pop mainstream di derivazione anni ottanta, un po’ techno da balera.
Lo stile ironico con cui si presenta sul palco e condisce tutte le sue canzoni, lo rendono un piacevole intermezzo.
Intermezzo che rasenta la gloria quando il nostro eroe si produce nel cosiddetto gesto della “cassa”:
leggermente chinato verso il pubblico, con le mani, tese in avanti a contorno della testa, che si muovano a tempo con il beat forsennato della musica.
Resta da capire se si tratti di un genio o di un cazzone. O tutte e due le cose.
Mentre decido di andare a dormire, m’imbatto nel dj/live set di Vitalic.
Beat cafoni e cassa grassa. Un po’ Daft Punk e un po’ acid house vecchia maniera.
Il modo giusto per aspettare l’alba e buttarsi sul letto: ballando.

SECONDO GIORNO

Con i postumi di una notte brava e di un pranzo luculliano, arrivo al Forum in tempo per vedere Parker and Lily, non perché conoscessi già la musica del quartetto-coppia newyorchese, ma perché attirato dalle parole, spagnole, della cartella stampa.
Anche questo fa parte del bello di un festival.
La band suona in quello che viene descritto come l’auditorium più grande d’Europa (ancora?), un avveniristico teatro da tremilacinquecento posti che, forte di un’acustica impeccabile, viene scelto dagli organizzatori come location per quei concerti in cui il forte bisogno di intimità fa la parte del leone, almeno quanto il bilanciamento dei volumi e la chiarezza del suono.
Intimi sono anche Parker & Lily, una sorta di Xiu Xiu meno teatrali ed arzigogolati, ma più elettrici e dediti ad una scrittura che pesca a piene mani dalle radici folk.
Per una volta, un comunicato stampa ha detto la verità: non sono per niente male.
La sicurezza del posto a sedere conquistato mi dissuade dal fare fagotto e recarmi ad assistere il live di Sole +12Twelve (i pochi sole-rti me ne parleranno, comunque, bene).
Fra poco qui, c’è Antony. Sì, quell’Antony lì. Quello delle copertine delle riviste specializzate e delle pagine intere dei quotidiani.
L’oggetto misterioso Antony. L’ambiguo e talentuoso Antony. L’affascinante e androgino Antony.
Insomma: lui.
Sale sul palco in compagnia dei suoi Johnsons e subito la sua voce prende il sopravvento sul resto, emergendo forte, unica e cristallina.
Prende il sopravvento su tutto, tranne che sul suo personaggio, ingombrante e talmente sopra le righe da risultare, a tratti, fastidioso.
Peccato, perché il talento di Antony è puro ed inequivocabile e la sua classe non si discute, ma ammetto che le canzoni di “I’m a Bird Now” mi sarebbero arrivate molto più al cuore se non fossero state intervallate da certe espressioni e certi momenti di comicità involontaria (per esempio, quando costringe l’intero auditorio ad imitare il verso della tortora, così, solo per avere un tappeto d’ambiente su cui poter suonare).

Lascio Antony alle prese con la parte finale del suo set (immagino non sarà mancata Candy Says), e corro al main stage per vedere i Broken Social Scene.
Se sfogliate regolarmente queste pagine, sarete sicuramente al corrente della considerazione che ho per questo gruppo. E ancora una volta, le pur altissime aspettative non vengono per niente deluse.
La formazione è più o meno quella del tour italiano dello scorso autunno; la scaletta invece è più adatta ai grandi spazi e finisce per puntare sulla potenza piuttosto che sulle sonorità rarefatte.
Kevin Drew e Brendan Canning, sono come al solito i punti cardine di questa folle carovana di freak canadesi. Il primo sembra assecondare sempre più il suo ruolo di Bono Vox indie, adottandone anche il look tutto occhiali da sole e giubbotti di pelle.
Brendan invece, con una ruffianissima maglietta del Barcellona numero 05, lascia quasi completamente il ruolo dell’istrione al compagno e si concentra sul sul basso e sulle (poche) parti cantate. La voce femminile è quella di Amy Millian degli Stars, ormai sempre più a suo agio nel ruolo che fu di Leslie Feist e sempre più incredibile quando canta Anthems For a 17 Year Old Girl. Un set breve, ma carico ed impeccabile. Anche Erlend Oye, il lungagnone dei Kings Of Convenience e vero presenzialista del festival (lo si incontra ovunque), sorride e sembra annuire.
Una grande band.
Tra Ron Sexmith, Micah P.Hinson e Gravenhurst, tiro in alto la monetina e finisco per andare a vedere questi ultimi (per i precisetti: avrei scelto Ron Sexsmith solo se la moneta fosse atterrata di taglio).
Il classico trio, basso, chitarra e batteria, dà vita ad un live molto nervoso e impeccabilmente post – hardcore come si faceva una volta. Per un secondo penso che una band così sarebbe stato bello vederla nel decennio scorso, poi mi fermo e ci rifletto un attimo: avevamo i June Of 44, cosa ce ne facciamo dei Gravenhurst?

Con questo dubbio amletico in testa, decido che è arrivato il momento di una pausa e salto a malincuore l’inizio di David Thomas & Two Pale Boys.
Sul main stage stanno per salire Iggy Pop e gli Stooges.
Mi dispiace, ma non ce la posso fare: sento un forte richiamo che mi fa camminare fino alle prime file e mi blocca lì.
Ad aspettare.
Iggy sale sul palco ballando e saltando prima ancora che la musica inizi. Ron Asheton è diventato con gli anni il sosia di Michael Moore, suo fratello Scott è sepolto dalla batteria.
Al basso c’è Mike Watt, il signor Minuteman.
In pratica la Storia. Quella con la “s” maiuscola. Davanti a me.
Fin dall’iniziale Loose mi arriva chiara in testa una cosa: Iggy Pop è un’ira d’Iddio!
Lo guardi mentre si dimena, canta, arringa il pubblico e pensi che non c’è niente da fare, che questa storia dell’età, degli anni, è solo una bella cazzata.
Guardi Iggy sul palco e non vedi un vecchio. Vedi un tornado. Forte e senza freni.
Molto di più dei ventenni fighetti che si trovano in giro adesso. I quattro pescano a piene mani da due dei tre album pubblicati sotto l’amata sigla, ed escludono a priori quelli di “Raw Power”, terzo disco mai veramente amato da Iggy e compari. E questa, signori miei, è coerenza..
Resisto tra il pogo per i primi sette pezzi, poi, subito dopo I Wanna Be Your Dog, mi sposto nell’area dedicata alla stampa e seguo il resto del concerto seduto sull’erba. Lo so, chiedo scusa, non è molto rock and roll.
Su Real Cool Time, l’Iguana ingaggia un duello con la security e fa salire sul palco sette fortunati del pubblico, con cui condivide microfono e movenze.
Dopo una psichedelica ed estenuante No Fun, arriva il momento migliore: con il sax di Steve Mackay vengono eseguiti alcuni dei brani di “Fun House”.
Sembra di fare un salto indietro nel tempo e viene da provare invidia per quelli che questa cosa qui l’hanno vista quando era ancora “nuova” e “rivoluzionaria”. Magari proveranno la stessa cosa i nostri figli quando si troveranno davanti la reunion dei Modest Mouse. Per dire un nome a caso.
Il tempo di un’altra I Wanna Be Your Dog ed arriva il momento dei saluti: “Goodbye Catalunya!!!”.
Gli Stooges se ne vanno. La musica continua.

E’ un piccolo shock arrivare, con l’anima e il corpo sconquassati dal furore e dall’adrenalina, nella piccola arena dove Kristin Hersh sta suonando da sola, voce e chitarra. Non c’è neanche il tempo di abituarsi alle sue deliziose litanie che è già il momento di cambiare palco nuovamente.

Al Rockdelux stanno per esibirsi gli American Music Club, e ancora una volta le mie gambe mi sostengono e mi portano fino al luogo deputato senza che riesca nemmeno a rendermene conto.
Lo dico senza mezzi termini e rischiando di fare la figura dell’idiota: questa era il concerto più atteso. Quello che mi ha fatto sobbalzare quando ho letto il cartellone, quello che volevo vedere da più tempo. Per una serie di motivi. Che hanno a che fare tutti con il cuore.
Inizia il solo Mark Eitzel, con una versione di Ladies and Gentleman totalmente opposta a quella dell’ultimo, splendido, “Love Songs For Patriots”. Il fragore degli strumenti, viene rimpiazzato da una chitarra acustica e la canzone si veste di nuovi, magici, colori.
Poi sale sul palco la band e tutto si fa più “normale”.
Le canzoni ci sono e sono bellissime, Eitzel canta bene, ma qualcosa va storto.
Almeno a me, che non riesco a farmi catturare come avrei voluto dallo show.
Forse li ho aspettati per troppo tempo e non mi ero ancora accorto di essermi già spostato.
Peccato.

E’ di nuovo tempo di correre verso il main stage, dove è il turno dei New Order.
La band più attesa dal pubblico spagnolo e non.
Per accorgersene basta contare le magliette dei Joy Division presenti tra il pubblico.
Io l’ho fatto, ne ho viste trentadue. Ma probabilmente ce ne sono molte di più.
Gli stessi American Music Club hanno suonato un pezzo della band di Manchester.
C’è poco da fare: la gente è qui per i New Order.
E per il passato.
Per Ian Curtis.
Il boato che segue Love Vigilantes è d’antologia. Ma subito qualcosa si rompe.
Tra le prime file del pubblico, alcuni dark invecchiati male gridano a Sumner di essersi venduto.
Lui li fissa pieno di sdegno ed introduce Crystal mandando chiaramente a quel paese gli spagnoli, rei di non aver apprezzato i loro ultimi dischi.
L’atteggiamento resterà di questo tenore per tutta la durata del concerto. E’ un peccato, però, che cotanta sfrontatezza non faccia da corollario ad una performance coi fiocchi.
Perché se i New Order possono vantarsi di mettere su una scaletta senza eguali (Bizarre Love Triangle, True Faith, Regret, Temptation, Blue Monday, senza contare Transmission e Love Will Tear Us Apart dal repertorio dei Joy Division), al tempo stesso sono responsabili di una performance musicale a dir poco scadente.
OK, Peter Hook con i suoi assoli e le sue movenze da coatto si fa sempre apprezzare, ma i New Order visti a Barcellona sono la fotografia di una band che dal vivo ha poco o nulla da dire.I brani (immortali, ripeto) appaiano tutti raffazzonati e suonati con l’energia di chi sta lì per dare “perle ai porci”. Spesso i componenti della band suonano senza neanche rendersi conto di quello che stanno facendo. Triste ed al tempo stesso straniante, perché se le orecchie si rifiutano e le braccia si chiudono, le gambe si muovono ed alla fine il volto si lascia andare ad un sorriso.
Di corsa mi sposto per assistere al live dei Mercury Rev. Lunari e Pink Floydiani come al solito, confermano in concerto di non aver smarrito il talento di cui difettava “The Secret Migration”, anche se alla lunga finiscono per annoiare e io passo il mio tempo a fissare le movenze sgraziate di una ragazza che balla sulle trame dei Mercury Rev come se stesse ascoltando un concerto di musica reggae.
Faccio due salti, letteralmente, durante il set di Whitey e vado a prendere posto per uno dei concerti più attesi della serata. No, non i pessimi scheletri tirati fuori dall’armadio degli anni ottanta e che rispondono al nome di The Human League, ma ben altra band.
I Piano Magic di Glen Johnson salgono sul palco che sono ormai le tre del mattino. I più stanchi tra il pubblico si lasciano andare lungo le gradinate che compongono l’arena, ma sono la minoranza.
La maggior parte della gente è accalcata sotto il palco ed attende il set dei Piano Magic come se si trattasse di uno dei grandi big della rassegna. Dopo un soundcheck lungo e piuttosto laborioso, le luci si spengono e la band inglese viene accolta da un boato incredibile. La scaletta è, ovviamente, incentrata prevalentemente sull’ultimo (ottimo e sottovalutato) “Disaffected”. A stupire però è la resa dei brani che vengono totalmente riarrangiati e riassettati per risultare più consoni all’esecuzione dal vivo.
Quelli che si aspettavano un’oretta di musica suffusa, suonini elettronici delicati e botta e risposta tra voce maschile e femminile rimangono spiazzati. La “faccia” live di Piano Magic è più sporca e nervosa. Le atmosfere rimangono quelle malinconiche ed emotive dei dischi, anche se a farla da padrone è il suono di una chitarra elettrica che non rinuncia ad improvvisi scatti di rumore.
Vengono eseguiti solo i pezzi cantati da Johnson, figura di leader improbabile ed impacciata ed allo stesso tempo fiera ed assolutamente credibile.
Il concerto finisce ed in testa rimane una forte sensazione di spaesamento.
Ed ora? Dove si va ora?
In preda alla più totale indecisione decido di bighellonare per l’area festivaliera, mangiare un boccone e godermi a sprazzi alcuni degli ultimi live e dj set in programma (gli Alter Ego costretti a saltare per un problema tecnico, gli improbabili ed incapaci “rappusi” Wiley ed il sound system della Kompakt), trovo pace e calma solo quando ricapito nei pressi del Rockdelux .
Sta per iniziare il dj/live set di DJ Krush, i pochi coraggiosi sfidano il freddo (incredibile ma vero) e restano in piedi pronti a danzare e a far ondeggiare la testolina.
Il coraggio non fa parte del mio mondo, mentre assistere ad un bellissimo dj/live set hip hop/breakbeat e tutte le altre definizioni che volete voi decisamente sì.
Le note di Dj Krush mi accompagnano fino all’alba.
Poi si va a dormire. Sono stanco, ma felice. L’essere sopravvissuto indenne ad una giornata così ricca di eventi e frenetica nei tempi va diritto a far numero tra i miei record personali.
Ne sono fiero. Domani si ricomincia.

TERZO GIORNO

“Il terzo giorno resuscitò”, secondo le Scritture.
Devo ammettere che, non riuscendo a rotolare fuori dal letto prima dell’ora in cui normalmente ci si abbandona alla “pennica”, ho sinceramente finito per dubitare di quanto sopra.
Basta poco, però, e sono di nuovo in piedi. Assonnato e distrutto dalla fatica, ma in piedi.
Un pranzo a base di pesce ed una birra ristoratrice mi mettono dell’umore adatto per affrontare un’altra giornata di concerti. Mi perdo (me misero, me tapino) sia il live degli Czars che quello di Vic Chesnutt, ma riesco ad arrivare in tempo per i Tortoise.
Prima, però, mi reco nei pressi del main stage dove, già da un po’, sta suonando Josh Rouse. Non presto molta attenzione a quello che succede sul palco, preferisco concentrarmi sulla birra e sulle canzoni, che ascoltate da seduti su un prato assumono quasi i colori delle composizioni degli Wilco, ma più pop. Nel senso di radiofoniche.
Giusto il tempo di essere messo a conoscenza dell’annullamento dei Television Personalities ed arriva il turno proprio delle tartarughe di Chicago.
Non è la prima volta che li vedo, ed ammetto che i loro ultimi lavori discografici mi hanno lasciato piuttosto freddo, per non dire totalmente indifferente. Ed è così, con le aspettative di chi è abituato a non aspettarsi niente di niente, che prendo posto all’interno dell’auditorium del forum. Auditorium che definire gremito è riduttivo.
I Tortoise attaccano gli strumenti agli ampli e tutto risulta chiaro. Sono in forma. In ottima forma.
Confermano tutto quello che si dice da tempo su di loro: hanno abbandonato il rock, vanno sempre più alla deriva verso un jazz che con un po’ di paura viene quasi da definire “latin”, ma non sono diventati accademici.
Nossignore.
Sono freddi, matematici, distanti – questo sì - ma non hanno perso nulla della carica che avevano nei primissimi anni novanta. O forse, l’hanno ritrovata proprio questa sera. Di fronte ad un pubblico adorante ed in delirio. Finito il concerto, faccio pochi passi e mi trovo di fronte i Dogs Die In Hot Cars. Uno dei “nuovi gruppi inglesi” più attesi del festival, grazie anche all’investitura di “nuovi XTC” che li accompagna sin da quando hanno mosso i primi passi da band.
Purtroppo soffrono della stessa malattia che accomuna molte band d’oltremanica: tanto curati su disco, quanto raffazzonati ed improvvisati dal vivo.
Le canzoni sono gradevoli, ma i suoni mal bilanciati (soprattutto una fastidiosissima tastiera) ed un cantato piuttosto stonato pregiudicano la riuscita del concerto.
Giusto il tempo per fare un salto a dare una occhiata alla “sagra di paese” allestita da Steve Earle (grossa delusione) ed è già il turno dei Dirtbombs. Vero mito del garage-rock americano (il cantante è Mike Collins, il fondatore dei seminali Gories) e veri e proprie macchine da palco.
Il loro live è uno dei migliori del festival. La bizzarra formazione (una sola chitarra, due bassi e due batterie), riesce nell’intento di far divertire il pubblico e allo stesso tempo dà vita ad un concerto veramente riuscito. Il finale, in pieno stile rock and roll, arriva con la distruzione degli strumenti e la chitarra di Mick suonata con i denti (!). Incredibili.
Mentre il sacro fuoco del rock n’ roll aleggia ancora sull’Escenario Nasti, mi rimetto le gambe in spalla per godermi qualche minuto degli “altri redivivi” The Wedding Present (sembravano in palla, non c’è che dire) e rifaccio il tragitto inverso per prendere posto sotto il palco che vedrà i Futurheads agitarsi e dimenarsi per un’oretta. O quasi. Anche loro, come tutte le band inglesi del momento, sono giovani, carini ed indossano la cravatta sopra la camicia a maniche corte.
A differenza dei sopraccitati Dogs Die In Hot Cars, suonano più che bene ed ancora meglio riescono a gestire le parti vocali (ci voleva davvero poco).
Li abbandono prima che arrivino alla fine del loro set, ma solo per un motivo: la storia.
La storia che sta per salire su un palco e sta per fare del rumore.
La storia chiamata Sonic Youth.
I “nostri” aprono con una lunga intro di chitarra, che confluisce in I Love You Golden Blue a cui seguono altri tre estratti dall’ultimo “Sonic Nurse”. Il bello ovviamente deve ancora venire.
Ed arriva: Pacific Coast Highway, Catholic Block, Expressway To Your Skull e Motel eseguite praticamente una dietro l’altra. Senza lasciare un minimo di respiro.
Thurston Moore saluta il pubblico alla sua (stralunata) maniera e abbandona lo stage. Solo una piccola pausa, ovvio. E solo Teenage Riot, ovvio. Non c’è fine migliore per un concerto dei Sonic Youth. Ed infatti, finisce così.
Neanche il tempo di farsi scrocchiare le dita dei piedi, che subito si presenta una dolorosa scelta: Out Hud o They Might Be Giants?
Nonostante l’appeal (forte) del side project dei !!!, alla fine sono i secondi ad avere la meglio.E ci mancherebbe pure.
I TMBG hanno la storia dalla loro parte, e sul palco fanno il possibile per non deludere la curiosità del pubblico europeo. Più unici che rari, vista da vicino sembrano la versione nerd e piuttosto tendente al cazzeggio dei Pixies.
OK, lo sapevamo già, ma giuro che questo lato emerge con ancora più potente chiarezza se si ha la fortuna di trovarseli davanti. Mettono in scena un vero e proprio teatrino, cercando di non tralasciare niente della lunga carriera della band, con un occhio di riguardo sui molteplici side-project ed il nuovo album (mai uscito in Italia) “The Spine” a farla, ovviamente, da padrone.
Non è un concerto facile, il loro. L’attitudine caciarona ed incline al prendersi poco sul serio fa sì che, tra il pubblico, i non iniziati rimangano di sasso, mentre il resto della ciurma finisce per applaudire ed alzare le mani al cielo a piè sospinto. Come i “fedeli” che assistono alla proclamazione di un nuovo Papa.
Archiviati i They Might Be Giants, rimane comunque alto il fattore nostalgia. In un certo senso, sembra che il calendario di questa terza giornata di festival sia stato compilato tenendo d’occhio un giornale del millenovecentoottantacinque.
Arriva, infatti, anche l’ora dei Gang Of Four.
La loro reunion era talmente nell’aria (grazie anche al florilegio di imitatori e presunti figliocci che sono assurti all’onore delle cronache degli ultimi anni) che trovarseli sul main stage non sorprende praticamente nessuno. Il loro concerto è piuttosto altalenante, o così me lo fa sembrare la stanchezza accumulata in tre giornate (e nottate) vissute molto intensamente.
Se dal punto di vista strumentale la band sembra in gran forma, non si può dire lo stesso del cantante. Spesso fuori tono e fuori luogo, finisce per compromettere gran parte dell’esibizione.
Peccato, perché i pezzi di “Entertainment!”fanno sempre la loro porca figura, e sarebbe stato lecito aspettarsi molto di meglio (nonostante l’esaltante “finalone”).
La cantante dei Go Team! è sul palco da cinque minuti e sembra una versione, di colore e molto più carina, di Samuel dei SubsOnica misto ad un animatore di villaggio turistico.
Non fa altro che agitarsi, ed agitare il pubblico, chiedendo di muovere le mani a tempo e seguire le sue improvvisate coreografie.
Nonostante questo (o soprattutto per questo), dal vivo risultano più che piacevoli.
Sono più asciutti e banalmente rock, rispetto alle loro prodezze “di studio”, ma molto divertenti e di forte impatto. Il loro “bastard-pop suonato” finisce per diventare un qualcosa di più normale (chitarre elettriche, beat hip hop, voce soul e – pochi - campionamenti assortiti), ma nessuno sembra accorgersene. Tutti sono qui per dondolare la testa e le mani a tempo. E per urlare: “Go Team! Go Team! Go Team!”.
Riemergere dopo un set del genere, sudato ed ancora più stanco, e trovarsi di fronte una band come gli M83 è un’esperienza ai confini della realtà. Il ritmo, il buon umore e la spensieratezza diffusi poco prima dai Go Team! finiscono per trasformarsi in qualcosa di diverso e totalmente opposto.
Se poco prima a trionfare era la “cassa grossa”, ora è il turno del cesello.
Umbratili e dilatati come su disco, gli M83 ci guidano verso quella che secondo i piani dovrebbe essere la vera fine del Primavera Sound 2005.
Il dj set di Erlend Oye dei Kings Of Convenience.
Pare che il nostro eroe abbia firmato un contratto con “Il Capo del Mondo” per concludere tutti i festival europei by himself.
E così, eccolo qui ad agitarsi sul palco alle prese con le sue selezioni che vanno dagli Human League a Bruce Springsteen, senza tralasciare le sue “hit” da solista e momenti che strizzano l’occhio alla dance vera e propria.
Sono le cinque del mattino, la gente è esausta. La stanchezza è visibile sui volti degli improvvisati ballerini, come in quello dello stesso Erlend. Eppure nessuno sembra volersi schiodare.
Erlend, dal canto suo, coinvolge alcuni Broken Social Scene che, incappucciati, si cimentano nell’inedito ruolo di cubisti. Il sole sorge inclemente, lo show sta per raggiungere il suo apice, ma gli addetti al palco ne hanno abbastanza e staccano le casse.
Il cantante/dj/ballerino – soprattutto- prende il microfono, ed in piedi sulla console cerca di cantare una canzone di commiato.
Ma niente, non c’è tempo.
Il Primavera Sound è finito. Erlend alza le mani al cielo e saluta.
Finalmente si dorme.

QUARTO GIORNO (la festa e la sua conclusione)

Ed invece no, come tradizione vuole, il festival si riappropria della sua città, grazie ad una tripletta di concerti in quel dell’Apolo, spazioso e molto confortevole club che si trova in pieno Barrio Chino. Sul palco ci sono i Richmond Fontaine e, udite udite, i Broken Social Scene. Di nuovo.
Se i primi si dimostrano dei buonissimi epigoni degli Wilco e finiscono per convincere molto più che su disco, sono i secondi (e ci mancherebbe) a catalizzare tutta l’attenzione dei presenti.
Richiamati all’ultimo per sostituire i 50 Foot Wave (la nuova band di Kristin Hersh), i nostri canadesi preferiti (con l’aiuto degli archi degli altri nostri canadesi preferiti, Arcade Fire) si sbattono come pochi e danno vita all’ennesimo concerto esaltante.
Purtroppo, però, l’organizzazione è inclemente e dopo soli quaranta minuti (in cui vengono eseguiti molti brani che troveranno spazio nel nuovo album), la band viene rispedita a casa. E noi con loro.
E’ infatti prevista all’Apolo una serata disco-gay, e secondo i gestori del locale questa popolazione potrebbe non trovarsi d’accordo con il pubblico indie. Mentre abbandono il club, indeciso se proseguire la nottata oppure gettarmi finalmente alla conquista del letto, rimango divertito ad osservare la colorata moltitudine di persone in fila e penso che è questo il bello di un posto del genere. Di un festival del genere. Mentre attraverso la Rambla del Raval, facendo slalom tra prostitute e pusher, mi ritorna in mente il verso di quella canzone italiana:
“In questo presente che capire non sai l’ultima volta non si scorda mai”:
Lo so: diceva “non arriva”.
Ma come chiosa non sarebbe stata altrettanto efficace.
Al prossimo Primavera.