Sunday, April 24, 2005

Not Tomorrow, No Mañana...Today!!

Primavera Sound Estrela Damm Festival 2004

A Barcellona “il mattino ha l’oro in bocca”, ed è cosa chiara ai più. Te ne accorgi subito appena sceso dall’aereo guardando le facce cordiali e segnate dalla vita tipiche dei catalani. Te ne accorgi quando metti piede per la prima volta nell’area dedicata al festival e subito ti trovi invischiato in una serie di operazioni difficili da espletare ed essenziali per andare avanti. L’organizzazione del festival prevede delle formalità burocratiche a cui sottostare: e poco importa che tu abbia sullo stomaco una serie indefinibile di birre allungate con la limonata e cibo (ottimo) di varia specie.
Però, si sa, la rigidità è spesso sinonimo di perfetto sincronismo e controllo totale della situazione ed il Primavera Sound è per questo aspetto l’eccezione che conferma e rafforza la regola. Mai vista una tre giorni così caotica e così perfettamente gestibile. Una vera e propria anomalia. Una preziosa anomalia.

Primo giorno: 27/05/2004
Una volta entrati nei pressi del Rockdelux stage (il secondo palco in ordine di grandezza) si rimane immediatamente colpiti dalla stranezza del venue. Una specie di stranissimo paesello medioevale ricostruito nei pressi del Montjuic. I primi ad inaugurare le danze e rompere il ghiaccio con l’ancora esiguo pubblico sono i Love of Lesbian. Catalani, i nostri sembrano subito a loro agio sul palco ed allietano la platea con il loro sound che unisce sonorità di stampo indie americano con il gusto pop tipico delle band spagnole. Scherzano (“Ciao, siamo contenti di suonare per voi. Dimenticavo: ci chiamiamo Pixies”) e divertono. Subito dopo è il turno di Refree, sempre dalla Spagna. Cantautore dai tratti oscuri e rarefatti (una strana via di mezzo tra Will Oldham e i Death In June), propone uno show intenso anche se decisamente monocorde. Passa in fretta e lascia il palco a La Buena Vida vero e proprio mito del pop indipendente a righe orizzontali gialle e rosse. La loro musica ricorda prepotentemente quella di band come Delgados e Slowdive. Una via dolce e rarefatta allo shoegaze. Il tempo di fare un salto ad un altro stage dove il VeraCruz Sound System fa ballare la folla con Hey Ya! degli Outkast ed è già il turno dei Pretty Girls Make Graves. Uno dei nomi più attesi. Il loro stile è sempre il solito: una fusione nervosa ed urticante di sonorità emo core e rock and roll. Il concerto alla lunga si rivela piuttosto noioso ed è un vero peccato che un tale sfogo di energie riesca a lasciare nell’ascoltatore poco o nulla. Ma chi se ne importa: siamo qui per Dizzee Rascal e per ballare. Il concerto del pischello dalla lingua più veloce del mondo è divertente e di alto livello. Peccato che (nonostante i freestyle tra una canzone e l’altra) sia durato veramente poco. La serata giunge al culmine con il dj set dei fantastici 2 Many Dj’s. Preso il possesso della console con un intro rubata direttamente al Ritual De L’Hobitual dei Jane’s Addiction e sconvolto la folla con estratti da un album degli Slayer, i nostri optano per un set più classicamente house che raggiunge il suo massimo punto di catarsi emotiva con il mash up tra Daft Punk e Clash. Il tutto si chiude con Breed dei Nirvana sparata a volume da audiolesi. È impossibile restare fermi ed infatti nessuno ci resta. Miss Kittin è già sul palco che scatta foto alla gente…


Secondo giorno: 28/05/2004
Arrivo al festival in tempo per un po’ di Dayna Kurtz (cantautrice in bilico tra Black Heart Procession e Nora Jones, niente di che) e per l'inizio del concerto dei Raveonettes. Esattamente come me li aspettavo: rock and roll, glam e noisy al punto giusto, giocano a fare Ike and Tina che giocano a fare i Jesus And Mary Chains. La cantante si fa notare per una fantastica maglietta: "Italians Do It Better" e per altre innumerevoli qualità che non sto qui a raccontare (ehm ehm....). Non resto fino alla fine del set: la consapevolezza che, ad un paio di salite di distanza, uno degli eroi minori del sottoscritto stia finalmente per calcare le scene, mi spinge lontano da li. Sto parlando di David Freel, meglio conosciuto come colui che si grava pesantemente di un fardello di nome Swell, una band che conoscono sì e no in quattro persone ma che vale assolutamente la pena di scoprire. Lo show è sorprendente: nervoso e rilassato al tempo stesso, forte di quella sgarrupatezza tipicamente indie americana che tanto ci piace. Il Nasti Stage (un invivibile ed angusto tendone) è popolato da un buon numero di persone che (incredibile ma vero) cantano a squarciagola brani come Sunshine Everyday ed Oh My My. Una conferma. Giusto il tempo di una clara ed è gia ora degli attesissimi Franz Ferdinand. Il concerto mi piace gran lunga di più di quello visto in Italia qualche mese fa. Gli spagnoli saltano come pazzi ad ogni canzone e non esitano ad esprimere il loro disappunto quando, saltato l'impianto, i FF continuano a suonare (evidentemente le spie funzionavano) come se nulla fosse successo. Incredibile osservare le facce dei componenti della band che, non essendosi accorti di quello che stava accadendo, esternavano angoscia e stupore (insomma, la tipica faccia da: “Oddio, mi sa che stiamo facendo proprio schifo”) per la reazione veemente del pubblico. Risolti i problemi si prosegue senza un attimo di pausa fino a Darts Of Pleasure che, come al solito, genera delirio collettivo al momento del "superfantastico" coro finale. Causa stanchezza, decido di arenarmi nei pressi del main stage in attesa dei Mudhoney, perdendomi così il concerto di Sun Kil Moon (il pittore Mark Kozelek con Tim Mooney del club americano della musica). A quanto mi è stato detto: uno dei momenti migliori del festival. Quando salgono sul palco i Mudhoney ho la sensazione grandissima di trovarmi all'interno di un grandissimo paradosso: è la prima volta che li vedo ma so esattamente cosa aspettarmi. Le attese infatti vengono totalmente confermate: grezzi, sfacciati ed ironici come solo i Mudhoney sanno essere ed infatti sono (fantastico intermezzo di Mark Arm alle prese con uno pseudo rockabilly di trenta secondi mentre Guy Maddison, al basso, si cimentava con l'imitazione delle movenze di Angus Young/Jack Black, fate voi). Ma come dice Samuele Bersani: “Nella vita c'è sempre un però” ed il però dei Mudhoney si chiama una acustica decisamente insostenibile (per capirci: le chitarre si sentono bene solo nei primi tre pezzi, poi da quelle stramaledette casse incominciano ad uscire solo bassi... e stiamo parlando di un concerto totalmente impostato sulle chitarre) che mi fa reggere fino al momento di ascoltare alcuni classici, ma poi la noia prende il sopravvento e decido di spostarmi sotto l'angusto tendone di poco sopra, per andare a vedere la fine di Casiotone For The Painfully Alone. Non riesco ad entrare e sento tre pezzi del suo concerto seduto su una panchina, tre pezzi in cui Owen Ashworth si becca tutti gli appellativi possibili (da "capo dei Nerd", a "Ciccio Bombo cannoniere", passando per il più suggestivo "Daniel Electro Johnston"). Chi era dentro mi racconta di laptop e tastierine (Casio, oh yeah) disposte a semi cerchio e di un concerto nel complesso per niente male. A seguire ci sono i The Russian Futurists, quintetto canadese estremamente elettro-naive che intrattiene il pubblico divertito con melodie non prive di grazia ironica. Nel frattempo, al Rockdeluxe Stage suonava James Chance and The Contorsions. Grandissimo impatto e grandissimo suono: funk bianco ed avanguardia fusi insieme per "lo zio dei !!!", un concerto che si preannuncia bello ed imperdibile ma che abbandono solo dopo due pezzi. Questione di scelte. Ecco, lo so, adesso voi "guardiani della fede" comincerete a blaterare che non si può mollare un concerto del genere per andare a vedere una band che "fa canzoni", solo delle banalissime canzoni, sostenendo che qui c'è la storia della musica, che non capisco un accidenti e che James Chance forse non avrò mai più occasione di rivederlo. Ed avete ragione, avete proprio ragione. Ma per me la musica è questione di emozione, cuore e cervello ed i miei organi vitali quella sera volevano questo. Volevano gli Wilco. Perché questo è il suono che mi accompagna da un sacco di tempo, perché Jeff Tweedy canta in un modo stupefacente, perché la sua faccia rovinata dall'abuso di medicinali e la sua attitudine valgono più di qualsiasi altro evento imperdibile. La formazione comprende due chitarre, un polistrumentista che si divide tra violino, percussioni ed anche lui chitarre, un tastierista, un bassista-percussionista-tastierista-seconda voce e Glenn Kotche assoluto dominatore della batteria. In scaletta si alternano i brani di Summerteeth, Yankee Hotel Foxtrot e del nuovissimo A Ghost Is Born. Decido di emozionarmi, decido di sprecare un po’ di fiato per cantare e per ingaggiare con una giornalista spagnola un discorso pseudo filosofico (molto pseudo) sul testo di I'm Tryng To Break Your Heart, decido di aver assistito ad un concerto splendido. Per intensità e suoni, uno dei più belli visti a Barcellona. Decido che sono soddisfatto e mi metto ad aspettare i Pixies (di cui si parla più diffusamente qualche pagina più avanti). Invece no, non ce la faccio. Guardo il programma, teso e concentrato come uno scommettitore in procinto di scegliere i cavalli per la tris. Individuo il mio cavallo vincente, si chiama Electrelane e sta già scalpitando nell’affollatissimo Nasti Stage. Le quattro giovani di Brighton danno vita ad un live di grandissimo impatto, supportate da pezzi davvero eccezionali (tanto dall’ultimo strepitoso “The Power Out” che dall’esordio “Rock It To The Moon”), che si prestano a delle versioni live mozzafiato. Rachel al basso, concentrata ed impassibile, Emma alla batteria picchia duro ma con quella grazia alla Keith Moon, Verity si alterna tra chitarra e tastiere, e canta; inglese, francese, e spagnolo… Oh Sombra! la cantano tutti. Ma la reginetta della festa è la chitarrista Mia Clarke, che a vederla sembra una di quelle classiche inglesine-carine-biondine-occhiazzurri-taglia42, che ti aspetteresti di trovare un sabato pomeriggio dentro lo Shopping Centre di Brighton, tra H&M ed Accessorize, intenta nella ricerca del gingillo da indossare la sera al club. E invece è li sul palco a straziare la sua chitarra, a suonarla ad una velocità da ritiro della patente, a guardare in faccia chi dalla platea non riesce a staccarle gli occhi di dosso, e a dar vita, non senza una buona e necessaria dose di ironia, a dei complessi esperimenti di tecnica chitarristica.


Terzo giorno: 29/05/2004
Mi dirigo verso la location del festival, e già la malinconia si affaccia a ricordarmi che lo sto facendo per l’ultima volta. Cerco di scacciarla mettendomi ad urlare a squarciagola God is seven!!! Funziona. Appena entro nella piazzetta del Rockdelux, vengo accolto dalla “musa minima del pessimismo cosmico”, ovvero quella Nina Nastasia che un basco vicino a me si ostina a chiamare a voce alta Òla Niña. Il concerto sarebbe ancora più intenso e toccante se solo non fosse così presto (18:30), e se non ci fossero così tante persone distratte ed intente a fare altro. Alle 19:30 sul Nasti Stage è in programma Devendra Banhart. Voglio essere li prima di lui. Guadagno la prima fila senza particolari affanni, ed assisto così, tra una coppia di fan di Milano ed una dark tedesca (tutti e tre incalliti fumatori senza pietà per il prossimo, vi ringrazio, ovunque voi siate), ad una delle esibizioni più intense, toccanti e commoventi a cui abbia mai assistito. Il suo ultimo album è un capolavoro assoluto, ma dal vivo, canzoni quali This Is The Way, It’s A Sight To Be Hold, This Beard Is For Stobhan e Todo Los Dolores diventano ancora più belle, di una bellezza ancestrale, che ti porta così indietro e lontano da farti girare la testa. Quel suo modo di stare seduto come se dovesse scappare da un momento all’altro, quella sua barba lunga, quei vestiti da giramondo e quella voce, tra Nick Drake e Jeff Buckley, struggente e bellissima. Dopo la magia di Devendra, mi muovo ormai con sorprendente familiarità verso l’enorme arena dove è in programma il gran finale del Primavera: Liars, Elbow, PJ Harvey e Primal Scream. I Liars, dopo lo spogliarello iniziale del cantante, presentatosi con uno zuccotto dai colori e disegni grunge, danno vita ad un gran bel live, dimostrando di aver trovato un ottimo affiatamento con il nuovo batterista, vera spina dorsale del nuovo corso dei bugiardi. Dopo di loro, gli Elbow sembrano prevedibili e scontati come i tiri in porta di Del Piero. …E all’improvviso arriva Polly, avvolta da un vistoso vestito giallo e scarpe da sera, si muove sul palco sicura, sorridente e carismatica. PJ Harvey ha voglia di suonare, e lo fa alla grande; qualche vecchio classico, ma molto Uh Huh Her nella scaletta. Il pubblico in estasi gradisce. A seguire, e a chiudere il Festival al Nitsa-Apolo, ci sono i Primal Scream. Anche Bobby Gillespie & Co. sembrano essere sorpresi dalla generosa folla spagnola, e così si mettono a suonare ad una velocità pazzesca, con Bobby che corre incessantemente da una parte all’altra del palco. A questo spettacolo di dinamismo sfrenato fa da contrasto un immobile Kevin Shields, che, pur non guardandosi più le scarpe, passa comunque il tempo a fissare la sua chitarra, assorto e narcolettico, nonostante il putiferio che gli ruota intorno. E così finisce il Primavera Sound, penso. Ma mi sbaglio, e di grosso. Vengo infatti trascinato, intorno alle 03:40, da una folla festante che intona il ritornello di Me And Giuliani Down By The Schoolyard mentre improvvisa una sorta di trenino che mi porta fino all’Escenario Nasti, dove sono appena saliti sul palco i !!!. Che dire, quello della numerosa formazione newyorkese è stato semplicemente il live più dinamico, sorprendente, eccitante e sovversivo del Festival. Mentre il loro disco sembra ingabbiarli, più che dar loro voce, dal vivo rompono gli indugi e spazzano via qualsiasi paragone con altri esponenti del cosiddetto filone punk-funk. Il loro non è un concerto, è una esperienza di catarsi collettiva: i musicisti che si scambiano gli strumenti e si intrecciano sul palco con ordinata confusione, i loro amici Liars in estasi poco più in là, e tutto il pubblico (e quanto!!!) che balla, salta e si contorce come se non fossero ormai le 4:30 del mattino dopo tre giorni di Festival, o, forse, lo fa proprio per questo. Come un immenso fuoco d’artificio finale.

(Emiliano Colasanti + Andrea Albensi)