Saturday, April 23, 2005

Revisionismi – Scisma, “Armstrong”

Plin plin plin

Quando si scrive una storia si parte sempre da un punto fermo, un punto che se ti sbagli e lo “centri” male è inutile andare avanti.
Quando si scrive una storia puoi permetterti di sbagliare tutto, ma non l’attacco.
Dall’attacco (l’inizio) s’intravede quello che succederà nel mezzo e come andrà a finire, si conoscono i personaggi, si delineano i ruoli… le sfumature no, quelle si capiscono piano piano, ché rivelare tutto subito sarebbe uno sbaglio e poi, vuoi mettere, le storie sono belle quando ti arrivano addosso lentamente e non ti lasciano andare via.
Quando ti tengono incollato alla pagina e l’unica cosa che puoi fare e stare attento e sperare che qualcuno abbia voglia di raccontartela. Di nuovo.

descrivere è impossibile/bisogna immaginare

Era il millenovecentonovantanove (scritto così, che se lo leggi tutto d’un colpo ti manca il fiato) e se ci pensi bene un po’ ti spaventi: d’un tratto il mondo si è messo a correre, e quelle che adesso ti sembrano cose di tutti i giorni (quasi come le “storie” di Riccardo Fogli, ma di tutto un altro spessore) cinque anni fa sapevi a malapena cosa volessero significare.
Nel millenovecentonovantanove le spillette non le portava nessuno, internet ed il file-sharing erano roba per pochissimi e “indie”, quella parola che adesso ti tirano dietro anche quando ti compri le arance al supermercato, era un termine da carbonari.
Non parliamo poi della musica italiana, anzi: della Nuova Musica Italiana, etichetta da cui non ci si riesce a liberare neanche se alle spalle, ormai, ci si è lasciati dieci dischi, cinque tour ed una serie infinita di figli illegittimi. La Nuova Musica Italiana di allora era la stessa di adesso, con la differenza (fondamentale) che tutto quello che in questo momento consideriamo in voga (indie, appunto) allora era nascosto e quasi inaccessibile.
I riflettori erano per pochi, proprio quei pochi che da lì a qualche anno avrebbero raggiunto livelli di fama e considerazione notevoli. Livelli di tour sold out e di Tora Tora!, per intenderci.
In mezzo, ma proprio in mezzo, c’erano gli Scisma. Troppo pop per i “khomeinisti dell’underground” e “troppo strani” per tutti gli altri.

e se sono il contrario di me, da che cosa mi sento diverso?

Con due dischi alle spalle (“Bombardano Cortina” e “Rosemary Plexiglass”), gli Scisma del novantanove erano il gruppo sulla bocca di tutti: “La next big thing della scena italiana”, e: “Se non fanno il botto questi… non lo farà nessuno” erano le frasi che si potevano scorgere su quasi tutte le riviste del settore e non solo.
Una grande casa discografica (la Emi) decise che era il momento giusto per tentare il colpaccio e mise su una campagna pubblicitaria senza precedenti (per un gruppo “di genere”).
Nel frattempo la band, rifugiata nello studio/casa sulle rive del Lago di Garda, cercava di venire a capo di quello che da lì a poco sarebbe diventato il loro nuovo album: “Armstrong”.
E, proprio come l’uomo che poggiava il piede per la prima volta sulla luna, anche l’Armstrong degli Scisma scatenò reazioni a dir poco spiazzanti.
Il pubblico ed i giornalisti rimasero quasi inebetiti di fronte la mescolanza di dolcezza e inquietudine nascosta tra le dodici tracce del disco.
Niente era come lo si era immaginato: quelli che dovevano essere muri di chitarra erano diventati arrangiamenti raffinati ed elaborati, i singoli erano piccoli capolavori dell’arte dello sviamento. Non c’era tranquillità in “Armstrong”, ogni cosa poteva diventare il suo contrario, brani dall’impatto volutamente diretto e pop, nascondevano rarefazioni e saturazioni all’epoca quasi inimmaginabili su un disco di musica italiana (ascoltatevi Giuseppe Pierri ed È stupido, per credere). Gli Scisma erano shoegaze (impossibile ascoltare L’innocenza e non pensare agli Slowdive) quando il termine non se lo ricordava più nessuno e questa rivista era solo una fanzine per pochi accoliti, erano post-rock (L’universo, Armstrong) senza sapere di esserlo.
Gli Scisma erano indie (ecco, l’ho detto). Anche troppo.

ringrazio dio che mi ha fatto troppo poco intelligente

Non furono capiti, o meglio: lo furono ma da pochi. Pochissimi per giustificare gli investimenti di una major (una che nel catalogo annovera sia i Radiohead che il Gabibbo) e per far sì che gli animi all’interno della band potessero rimanere placidi ed amichevoli.
Decisero di smettere per coerenza, subito prima di diventare la macchietta di se stessi, cambiare qualche elemento della band ed andare avanti con il solo scopo di tirare su qualche lira con i concerti. Alcuni di loro sono spariti, altri continuano a suonare e sono sparsi all’interno di gruppi e gruppetti della nazione e non solo, qualcun altro (Paolo Benvegnù) ha tirato fuori un disco, uno dei migliori di questo duemilaequattro, e da solo cerca di proseguire il cammino iniziato con la band.
Tutti insieme si sono ritrovati su un palco, poco più di un anno e mezzo fa, per una serata speciale di festa e di addio. A sentirli c’era più gente di quando erano in piena attività e tutti cantavano a squarciagola le canzoni.
Un gruppo che ha funzionato di più nell’assenza che nella presenza. Si diceva così (nello scorso numero) per i Pixies, e vale tutto per gli Scisma.