Saturday, April 23, 2005

La lunga estate dei folletti

Il problema delle storie è che le racconti a giochi fatti.
Anche le telecronache di baseball alla radio, gli home-run e gli strikeout, persino quelli sono in ritardo di qualche minuto. Persino i programmi TV in diretta arrivano un paio di secondi dopo.
Persino il suono e la luce non superano una certa velocità.
Un altro problema è chi la storia la racconta. Il chi, il cosa, il dove, il quando e il perché del giornalismo. La forma che il messaggero dà ai fatti. Quello che i giornalisti chiamano Il Guardiano.
Il fatto che il modo in cui si presenta una storia è tutto.
La storia dietro la storia.
(Chuck Palahniuk - Ninna Nanna)

Questo preambolo serve giusto per mettere le mani avanti: non aspettatevi distacco, obiettività e lucida freddezza critica da quanto segue. Mi dispiace, non questa volta.
Questa volta si racconta una storia. Una storia che avevi ormai archiviato come ‘passata’ ed improvvisamente ti ritrovi a considerarla ‘presente’ e, perché no, ‘futura’…
Oggi si racconta la storia dei Pixies.
Siete pregati di mettervi a sedere e di allacciare le cinture di sicurezza.


The Pixies SellOut 2004

Partiamo dalla fine:
durante l’estate del 2003 si sparge la voce di una possibile reunion della band di Boston. Nel giro di poche ore, siti e webzine musicali (quelle che contano, quelle che nomini senza neanche il bisogno di specificare il www) impazziscono.
E’ ufficialmente scoppiata la Pixies mania ed il primo ad accorgersene è proprio Black Francis (scusate se mi ostino a chiamarlo così. Sono un fottutissimo nostalgico). Impegnato nella promozione del suo ultimo album Show Me Your Tears passa la maggior parte delle interviste a spiegare che:

‘Una reunion è da escludere. Però stiamo incominciando a provare insieme. Giusto per capire se siamo ancora in forma’.

Per la serie: prima getta il sasso e poi nasconde la mano.
E’ forse proprio quello il momento in cui gli altri tre (Kim Deal, David Lovering e Joey Santiago) si accorgono di contare ancora qualcosa per gli ascoltatori di indie – rock (sì,ok: lo sapevano anche prima. Soprattutto Kim) e non solo. D’altronde che la band di Boston abbia funzionato di più nell’assenza che nella presenza è un dato di fatto inconfutabile. Basti pensare al numero impressionante di gruppi e gruppuscoli venuti fuori ed arrivati all’onore delle cronache prendendo spunto ed estremizzando proprio quella mescolanza di furore e pop music che aveva reso i Pixies irresistibili (dai Nirvana ai Modest Mouse passando per i Pavement, gli Weezer e… aggiungete voi un nome a caso. Tanto uno vale l’altro e lo sappiamo benissimo in quante canzoni uscite negli ultimi anni abbiamo riconosciuto Debaser).
Quindi fa piacere immaginarceli così: di nuovo tutti uniti a trascorrere il capodanno del 2004 in uno scantinato da East LA. (nuova patria della signorina Deal) impegnati nel provare le vecchie canzoni e percorrere il filo della memoria. Magari buttando giù qualche nuova idea per del materiale futuro.
Nei mesi che seguono, il nostro ciccione preferito è impegnato con la sua ganga (i Catholics) in un giro di concerti, gli ultimi, per la tournee di Show Me Your Tears. Neanche il tempo di parcheggiare il furgone ed è già l’ora dei Pixies. Di nuovo. Questa volta sul serio.
Il 13 Aprile, l’Art Caffè di Minneapolis è il posto giusto in cui essere. Poco dopo le 22 i nostri eroi sono di nuovo una band. La prima ad aprire la bocca è proprio Kim Deal (con tutta la sua famiglia appollaiata in galleria, proprio come nei saggi scolastici). Saluta il pubblico, sorride, accorda il basso ed è già Bone Machine.
Da quel momento in poi è storia nota: quel concerto, le ventisei canzoni che seguono e le impressioni che scaturiscono andranno a comporre uno dei bootleg più ricercati dell’era del file – sharing.
Il gruppo sul palco si dimostra in salute e quell’effetto dejà vu da molti giustamente temuto è evitato alla grande. I Pixies, in forma come non mai, salutano Minneapolis e partono per un tour (americano prima e mondiale poi) che li terrà impegnati fino a fine anno. Ma questo probabilmente lo sapete già.
La parola d’ordine del nuovo corso di Black Francis e soci sembra essere: “Sorpresa”. Ed è proprio così che un giorno di giugno il mondo si trova alle prese con una nuova composizione del quartetto.
Bam Thwok arriva negli hard disc degli utenti di I-Tunes in esclusiva ed in meno di un pomeriggio fa il giro del mondo. La canzone è puro Pixies: scritta e cantata da Kim Deal ha tutti gli elementi che hanno reso popolare il suono del gruppo. Un basso tagliente ed una ritmica veloce, su cui si staglia la chitarra solista di Joey Santiago ed un assolo di organo suonato dal padre di quest’ultimo, fanno da tappeto alle voci: annoiata ed in secondo piano quella di Frank Black, graffiante ed allo stesso tempo dolcissima (come sempre) quella di Kim Deal.
Un piccolo gioiello di pop-music che ci riporta i Pixies così come ce li ricordavamo: originali, travolgenti e dotati di un’attendibilità rara. In una parola sola: unici.
Quello che succederà nei prossimi mesi non è dato saperlo: probabilmente la vita insieme di Kim Deal, Joey Santiago, David Lovering e Black Francis cesserà definitivamente una volta chiusa la porta del tour bus e riposti in soffitta gli strumenti. Probabilmente no.
Quello che conta è che il 2004 ha finalmente reso giustizia ad uno dei più importanti e sottovalutati fenomeni musicali degli ultimi venti anni, cosa porterà il futuro non c’interessa.


1987- 1993 Sei Anni Vissuti Pericolosamente

‘In partenza la mia sola ambizione era di suonare in un gruppo di rock and roll e di registrare qualche disco…forse.
E’ per questo che i Pixies esistono, perché siamo fan dei dischi… e adesso che ne abbiamo registrati noi stessi l’ambizione è di farne uscire a tonnellate, che siano buoni e che vendano. Dei dischi che costituiscono il mio orgoglio’
(Black Francis 1990)

Un semplice gruppo di rock and roll. E’ questo che i Pixies rappresentavano per loro stessi all’inizio della loro storia.
Un gruppo nato dall’unione di quattro persone fan della musica degli anni sessanta e settanta che guardavano con un occhio di riguardo i fermenti che stavano esplodendo nell’underground americano (R.E.M, Husker Du, Violent Femmes e Replacements).
E’ andata così: Charles Michael Kitteridge Thompson IV (con un nome così è abbastanza naturale che si sia scelto uno pseudonimo…chissà che fatica fare il codice fiscale) e Joey Santiago sono amici di vecchia data. In un non meglio specificato giorno del 1987, tra un disco di Neil Young e l’altro, decidono che è venuto il momento di fare sul serio. Mettono un annuncio sul giornale dell’università e dopo qualche ora ricevono una telefonata: è una donna e dice di voler suonare il basso.
Ovviamente non ne ha mai preso uno in mano in vita sua, ma conosce un batterista.
E si sa, i batteristi sono una merce sempre rara.
Ecco quindi che al tavolo da poker vengono aggiunte due sedie: quella di Kim Deal (aka Mrs John Murphy) e quella di David Lovering, picchiatore di tamburi e futuro ingegnere elettronico.
Ci siamo: il gruppo è ormai pronto per entrare in studio. Il primo parto è un demotape di 17 brani conosciuto dai fan con il nome di The Purple Tape.
Gli addetti ai lavori rimangono subito esterrefatti di fronte questo strano miscuglio di canzone pop ed impeto punk-hardcore. L’ugola di Black Francis e la chitarra di Joey Santiago emergono prepotentemente fin da questa prima pubblicazione: è come se uno strano Frankestein creato in laboratorio prendendo pezzi da Gordon Gano, David Thomas ed Iggy Pop si agitasse su delle chitarre di stampo quasi surf. Una cosa mai sentita prima.
Il primo ad accorgersene è Ivo Watts- Russel, il signor 4 A.D.
Bruciando tutte le tappe possibili, nel marzo 1987 viene pubblicato un E.P. dal titolo Come On Pilgrim. Dentro ci sono otto delle canzoni tratte dal Purple Tape (le restanti faranno parte di una raccolta, edita dalla Cooking Vinyl nel 2002, intitolata semplicemente Pixies) che lanciano il gruppo di Boston come la più importante promessa del rock di fine anni ottanta.

‘Abbiamo conosciuto molti gruppi che si lamentano per il nostro aver saltato completamente la gavetta, ma per quanto tempo si può restare seduti nella propria stanza a suonare la chitarra? Nei bar non ci suoni a lungo se hai un po’ di successo ed allora ti viene proposto di andare giù in Virginia, un piccolo concerto per cinquanta dollari, abbastanza per pagare la benzina. E’ l’occasione per lasciare la città, ok, ma non una vita. Per guadagnarsi il pane bisogna andare in Europa e lì si entra nel circuito che conta, sperando che la gente ti adori. E’ così che è successo…semplice, no?’
(Black Francis 1990)

Il 1988 è l’anno della svolta. Nel giro di pochi mesi escono dischi destinati a cambiare le sorti di quegli anni: Daydream Nation dei Sonic Youth, Green degli R.E.M., Bug dei Dinosaur Jr, Isn’t Anything dei My Bloody Valentine ed il capolavoro dell’hip hop It Takes a Nation Of Millions To Hold Us Back dei Public Enemy. In coda arriva anche Surfer Rosa. L’atteso esordio sulla lunga distanza dei Pixies.
Prodotto da Steve Albini, il disco si afferma da subito come una pietra miliare di quel genere che ci piace tanto chiamare college-rock. All’interno ci sono canzoni che diventeranno veri e propri inni per due generazioni di appassionati di musica: Vamos, Where Is My Mind, l’epilettica Broken Face e soprattutto Gigantic vero e propri assalto pop messo in atto dalla signorina Deal che per la prima volta compone e canta. I testi di Frank Black Francis affrontano con ironia ed humour nero tematiche “scabrose” come: religione, perversioni sessuali e violenza. Il tutto con un linguaggio nuovo e totalmente inedito. Un misto di inglese e spanglish mai sentito prima d’ora.
Per Thom York e David Bowie è “il disco più sexy della storia”. E se lo dicono loro… buona camicia a tutti.

Difficile ripetersi dopo un coming out del genere. Lo sappiamo tutti: ci sono band che si sono fatte breccia nei cuori e nelle orecchie degli ascoltatori con degli esordi semplicemente epocali e che sono rimaste affossate dall’incapacità di reagire alla bellezza ed al successo della prima uscita. Un nome su tutti: gli inglesi Stone Roses (tanto lo sapevate che parlavo di loro).
Ma anche: Television (ok, Adventure era un bel disco ma…), Air, i Modern Lovers e moltissimi altri.
Con i Pixies fu chiaro dall’inizio che non sarebbe andata così. Il seme buttato da Surfer Rosa fotografava un gruppo in piena ascesa creativa e ad un passo dal raggiungere la maturità compositiva. Il bello doveva ancora venire.
Ed il bello venne…esattamente un anno dopo.
Firmato un contratto che li legherà, per la sola america, con l’Elektra (in Europa invece continua il rapporto indissolubile con 4 A.D.), i nostri entrano in studio con un nuovo produttore (Gil Norton) decisi a sviluppare un suono più vario e meno omogeneo di quello orchestrato da Albini.
Dopo sole due settimane, sulla scrivania di Ivo Watts-Russel arrivano i master di quello che diventerà Doolittle. Il capolavoro assoluto.
Sedici canzoni all’apparenza slegate una dall’altra che formano un unico viaggio all’interno di stili e manie della musica underground: il pop simil surf di Here Comes Your Man, l’inquietante soul ‘da camera da letto’ di Hey, il proto punk di Dead e Tame, l’indie rock di Gouge Away e Debaser e due canzoni con la C maiuscola come Monkey Gone To Heaven e Wave Of Mutilation.
E’ grazie a queste che Doolittle è considerato un vero e proprio sussidiario per tutto il rock indipendente a venire. Il vero motivo per cui ancora parliamo dei Pixies.
La reazione al successo (relativo, ovvio) di Doolittle e ad un tour mondiale lungo ed estenuante si chiama Bossanova.
E’ il 1990 e la band di Boston approda al traguardo del difficile terzo disco (qualche settimana dopo l’uscita di Pod. Esordio‘solista’ di Kim Deal con i suoi Breeders) senza però stupire come era avvenuto in passato.
Assemblato come una versione più pop dei due album predenti, Bossanova è in ogni modo un disco più che apprezzabile che riesce in ogni modo a ritagliarsi uno spazio ben definito tra gli appassionati dei Pixies e non solo. Merito di canzoni come Velouria, Allison e Cecilia Ann (cover del classico dei Surftones).
Un singolo come Dig For Fire dovrebbe garantire al gruppo l’affermazione che cerca anche al di fuori dei confini troppo stretti dell’underground. Ma non c’è nulla da fare: certi gruppi sono fatti per un successo rapido e bruciante. Per i posti alti nella classifica e per le esibizioni a Top Of The Pops. Altri sono fatti per avere una carriera senza troppi clamori ed entrare nella leggenda solo una volta sciolti.
‘Chi ha comprato il primo album dei Velvet Underground ha, in seguito, formato una band’.
Lo diceva Brian Eno e vale anche per chi ha amato i Pixies…credo.

‘Ho bisogno di essere in primo piano. Molto. E’ il mio gruppo e sono io che l’ho fondato, non loro.
Loro non hanno scritto sessanta canzono, io sì. Non è una critica ma una constatazione. Non provo il bisogno di essere conosciuto e riconosciuto, ma ho bisogno di quelle canzoni, ho bisogno di scriverle’.
(Black Francis 1990)

Il 1991 sarà ricordato da molti come un anno centrale per la storia recente della musica rock.
L’avrete capito, suppongo: stiamo per nominare i Nirvana e tutto quello che è successo dopo l’uscita di Nevermind.
Improvvisamente le classifiche vengono sgomberate di forza dalle decine di bubblegum band che dominavano in quegl’anni ed il rock torna a vendere.
Non stiamo ovviamente parlando dei Guns And Roses e dei pantaloni da ciclista del loro capelluto leader.
Stiamo parlando di musica vera e senza fronzoli, di una nuova era in cui l’underground diventa overground ed occupa di forza i piani alti degli uffici delle major che contano.
I Nirvana di Kurt Cobain fanno da testa di ponte per un intero movimento ed il loro successo porta a luce maggiore tutti quei gruppi che negli anni passati avevano lottato per affermarsi: Dinosaur Jr, Melvins, Sonic Youth, Mudhoney…
Ed i Pixies? Citati più volte da Cobain come una delle principali fonti d’ispirazione, i nostri eroi pubblicano il loro quarto album, l’ultimo, praticamente quasi in contemporanea a Nevermind.
Si chiama Trompe Le Monde ed è visto da molti come l’anello più debole della carriera di Kim Deal, Black Francis, Joey Santiago e David Lovering.
Considerato da molti come il più debole della carriera del quartetto, è in realtà un buon album anche se troppo affossato su schemi collaudati e con una produzione laccata che rende il disco e certi suoni di stampo quasi metal.
Le canzoni, come al solito, sono di pregevole fattura anche qui (Alec Eiffel, U- Mass ed Head On dei Jesus And Mary Chain su tutte), ma il disco stenta a decollare ed è uno dei pochi a rimanere immune all’effetto Nirvana.
Il 13 gennaio 1993, durante la trasmissione Hit The North in onda sull’inglese Radio5, Charles Thompson, alias Black Francis, alias Frank Black (ha appena pubblicato un album con questo nome) annuncia in diretta che i Pixies non esistono più.
I motivi della fine sembrano essere i continui litigi con una Kim Deal lanciatissima con i Breeders che si ostina a riproporre in concerto brani della band madre ancora, ufficialmente, in vita.
Finisce così l’avventura di una delle più straordinarie meteore della storia del rock.
Da lì in poi i membri della band si cimenteranno, con alterne fortune, in carriere soliste (da recuperare almeno i primi due album e l’ultimo – Frank Black, Teenager Of TheYear e Show Me Your Tears- di Frank Black e tutti e tre quelli pubblicati dalla fu ‘signorina Murphy’ sotto il moniker di Breeders) ed operazioni indubbiamente originali (David Lovering girerà l’America promovendo uno spettacolo in bilico tra magia e scienza).
Il marchio Pixies invece è distinato a durare per sempre e diventare ‘storia’.E come dice Palahniuk: ‘Il problema delle storie è che le racconti a giochi fatti. Anche…’