Saturday, April 23, 2005

Broken Social Scene: All In The Family

Fare un’intervista non è mai facile: dipende sempre da chi ti trovi davanti. Dal suo stato d’animo in quel momento e dalla capacità dell’intervistatore di mantenere la calma.
Anche dopo due ore di ritardo, anche dopo aver scoperto di dover attendere fino alla fine del soundcheck.
D’altronde è scritto nelle stelle: rock 'n' roll (che sia indie-, post-, o qualsiasi altro prefisso vi venga in mente, non conta) vuol dire genio (a volte) e sregolatezza (spesso). Per cui c’è poco da fare: lasciare a casa i nervosismi è la prima regola da rispettare quando si vuole confezionare una buona intervista.
Noi ci abbiamo provato. Giudicate voi se ci siamo riusciti.


Roma 24 novembre 2004

“Oggi non mi sento molto bene, credo di avere un po’ di febbre”.
Kevin Drew (voce, chitarra, tastiere, e chi più ne ha più ne metta, dei Broken Social Scene), si aggira nei meandri del Circolo Degli Artisti, ancora vuoto.
Cappellino di lana saldo sulla testa, intento a coprire i lunghi capelli biondi, una bottiglia di birra che sembra direttamente impiantata nella mano destra, come un Capitano Uncino con la giacca a righe e le spillette, mi spiega il perché del suo malessere:
“Non dovremmo essere qui. È molto bello suonare da voi, in Europa, ma abbiamo dovuto interrompere le registrazioni del nuovo album e partire per quattro settimane di tour. Suoniamo quasi ogni sera, e prima di ogni concerto facciamo promozione, interviste, session acustiche per le radio. Non è facile: oggi si apre il nostro tour italiano e siamo già stanchi, ma va bene così. Nonostante tutto so che quando saliamo sul palco riusciamo sempre a dare il meglio, e questo mi rincuora non poco.”
Ed eccola qui, subito, la notizia che tutti volevamo sentire: i Broken Social Scene sono al lavoro su un nuovo album, l’attesissimo seguito di ‘You Forgot It In People’. Un disco destinato a fare il botto nonostante nessuno, neanche il gruppo, abbia idea di che direzione precisa possa prendere:
“Ho sentito in giro che probabilmente uscirà a febbraio. È una bugia. Ci stiamo ancora lavorando e penso che ne avremo per parecchio altro tempo. È una cosa molto strana: certi giorni ci sembra che tutto vada OK e quasi quasi vorremmo chiudere lo studio e lasciare l’album così com’è. Altre volte succede che mentre ascoltiamo il materiale registrato ci si accappona la pelle e vorremmo rifare tutto daccapo. Se tutto va bene dovrebbe essere pronto per maggio, ma non riesco ad essere preciso: registrare un disco, in genere, è un processo molto difficile, per noi lo è ancora di più. C’è sempre un enorme via vai in studio ed è difficile riuscire a radunare tutti i musicisti. Inoltre, il nostro produttore ama lavorare solo su tre-quattro pezzi per volta. Ho la sensazione che tutto sia un po’ dispersivo e che dovremmo tornarcene a casa per provare a mettere tutto insieme. Autoconvincerci che è arrivato il momento di terminarlo, questo maledetto album. Il fatto è che ora siamo qui per suonare e siamo sicuri di farlo alla grande, ma è strano salire sul palco ogni sera e suonare i pezzi dei vecchi dischi mentre con la testa si è tutti presi dalla roba nuova. Il pubblico però viene per sentire dal vivo le canzoni che conosce, e lo fa per la prima volta. Noi cerchiamo di fare del nostro meglio per accontentarli, e nel frattempo lavoriamo per noi stessi: in ogni canzone tentiamo di inserire nuovi inserti, arrangiamenti diversi… cerchiamo di arricchire i brani con momenti nuovi. È il nostro modo di sopravvivere alla nostra musica. L’unico che conosciamo.
Il nostro prossimo disco sarà importante. Soprattutto per noi stessi. Sappiamo che c’è una grossa attesa, ma non ne avvertiamo la pressione. Cerchiamo solo di lavorare nel miglior modo possibile e alla nostra maniera. Siamo una band fieramente indipendente e lo saremo ancora. In Inghilterra siamo appoggiati dalla Mercury, abbiamo un discreto numero di persone che si occupano di noi e che ci aiutano ad uscire sulle pagine di NME ed altre merdate simili. Fondamentalmente non ce ne frega un cazzo, ma sappiamo di essere una fottuta indie band che gira per il mondo. E per farlo abbiamo bisogno di un po’ di soldi per sopravvivere e di un bus per muoverci, quando siamo lontani dalla nostra terra. L’interesse delle Mercury rende tutto questo possibile ed è un bene… sono stato abbastanza diplomatico?”

Kevin continua a bere la sua birra, imperterrito, e tra una risata e l’altra cerca di spiegare meglio il suo pensiero: “Penso che Internet ed il file sharing abbiano rotto il culo al mercato e fatto per noi più di qualsiasi casa discografica. Sappiamo benissimo che qui in Italia e più in generale in Europa, c’è gente che possiede ‘You Forgot It In People’ da più di due anni, nonostante la distribuzione sia attiva solo da pochi mesi.
E queste persone qui sono quelle che verranno stasera, che canteranno le canzoni e che seguono attivamente tutti i nostri show. Negli States si vendono ancora tanti dischi e capisco che le band capaci di muovere grandi cifre cerchino di tutelarsi, ma da voi è diverso. Il mercato è molto più ridotto, ed è vitale che Internet riesca a veicolare la musica più di quanto sia mai accaduto in passato. Se siamo qui è solo perché qualcuno ha scaricato il nostro disco, ne ha parlato bene, ha incuriosito qualcun altro che a sua volta se l’è comprato quando è riuscito a trovarlo originale. Una cosa del genere era impensabile solo pochi anni fa. Ma il passato è andato e il presente è adesso. E sinceramente a me pare un presente grandioso: non siamo mica la fottuta Britney Spears, che ha un regno da difendere, deve lottare per la sua posizione nel jet set. Noi siamo solo una piccola indie rock band che arriva a suonare fuori dal loro stato e lo fa, in parte, grazie all’aiuto della rete. Nonostante tutto abbiamo una nostra piccola etichetta (Arts and Crafts) e cerchiamo di pubblicare i dischi di gente che ci piace: Feist, Apostle Of Hustle, gli Stars. E poi ci sono un sacco di band che non incidono per noi e con cui, prima o poi, ci piacerebbe fare qualcosa: gli Arcade Fire, i Dears, i Metric che sono nostri amici e poi, ovvio, i mostri sacri come Godspeed You! Black Emperor e Do Make Say Think. Quello che hanno fatto loro è stato importante ed ha aperto la strada a noi e alle altre magnifiche band che ho citato prima.”

Ed eccola, finalmente, la ‘famosa scena canadese’, spiattellata di colpo davanti ai nostri occhi: “In Canada fondamentalmente c’è solo un sacco di gente che cerca di fare la propria musica in maniera onesta. Questo valeva per la cosiddetta scena di Montreal ed è così per Toronto, da dove arriviamo noi. Ci si conosce tra i membri dei vari gruppi, ci si scambiano le informazioni, si vanno a vedere gli stessi concerti. Facciamo tutti parte dello stesso mondo e con noi ne fanno parte anche i tecnici del suono, i produttori e i giornalisti.. Sono stati importanti anche loro: hanno incominciato a parlare di quello che facevamo in Canada quando ancora non lo sapevamo bene neanche noi e grazie al loro interesse la comunità si è rafforzata: i gruppi di Toronto hanno iniziato a fare date nei club e a vendere a livello locale, la gente ha iniziato a sostenerli. Noi stessi siamo molto fortunati perché abbiamo, a casa, amici che lavorano in ambiti musicali e video, e questo ci dà molto aiuto e molto supporto. Poi adesso ci sono un sacco di realtà pronte a tentare il grande salto e dobbiamo stare attenti a non farci fregare dalla concorrenza. Ovviamente scherzo: fa piacere girare per gli Stati Uniti ed in Europa, dare un’occhiata alle riviste e trovarci sopra le foto dei nostri amici. È una cosa che ci fa sorridere e ci mette allegria. Il Canada è un paese molto piccolo, ma l’aria e la creatività che si respira è talmente buona che… pensa che da noi i musicisti ricevono anche dei fondi dallo Stato. Siamo molto contenti di venire da dove veniamo. Io stesso sono il primo che mette le mani avanti specificando sempre e comunque di non essere americano. In realtà lo faccio un po’ per gioco: l’America è un paese splendido, popolato da gente splendida. Ogni volta che siamo andati lì per suonare ci siamo divertiti da morire, ma sarebbe stupido far finta di niente. Gli Stati Uniti, al momento, sono pieni di problemi: il paese è diviso, la gente è divisa. In più sono governati da un tizio assurdo, e lo saranno per i prossimi quattro anni. Tutto ciò fa paura, anche se è arrivato il momento in cui tutti i paesi si guardino indietro e capiscano che l’America sta solo cercando di realizzare il suo progetto originario: diventare il paese più potente del mondo. È triste. Tanto triste.
Noi, come voi europei, siamo i primi a gettare merda su come vanno le cose in quel paese, ma sarebbe stupido far finta di niente.
È un brutto periodo per tutto il mondo: ci sono un sacco di paesi che se la passano male, guarda la Cina ed un sacco di posti che noi stiamo scoprendo in questi giorni come la Spagna e l’Italia. Voi avete dei casini, ma fate qualcosa per risolverli. È lo stesso motivi per qui i Broken Social Scene fanno quello che fanno: ogni volta che saliamo sul palco ed è come se dicessimo ecco, questo è tutto ciò che abbiamo, vi prego prendetelo perché in questo momento tutti ne abbiamo bisogno. Perché ogni cosa che viene fatta è ‘politica’: suonare è politica, scrivere canzoni è politica, anche alzarsi dal letto e far vedere che ce la fai ad andare avanti è politica. E noi cerchiamo di farlo tutti i giorni. È il nostro modo di fare rivoluzione.”

Già, la rivoluzione. Una parola che non va più di moda, come le Tepa Sport ed il registratore a cassette. Roba da pionieri, come più di qualcuno ha definito i Broken Social Scene:
“Non siamo pionieri, semplicemente facciamo parte di una generazione proiettata nel futuro. Apprezziamo il passato, sappiamo chi sono i Led Zeppelin, ma non c’interessa, vogliamo fare le nostre cose e farle come ci piace. Ognuno di noi fa parte anche di altre band, tutte di estrazione diversissima anche se, quando suoniamo insieme, stenteresti a crederlo per quanto sembriamo compatti. È questa la nostra forza.”

Kevin Drew, si alza e ci saluta. È il momento del soundcheck, e vuole riposarsi un po’. Poggia sul tavolino l’ennesima birra e scherzando mi dà appuntamento per il giorno dopo, a Bologna. Nel frattempo il Circolo Degli Artisti si riempie di gente pronta ad assistere al concerto.
Concerto che non delude le aspettative, anzi, le sorpassa mettendo la freccia e lasciandole sfilare sulla destra. Come si fa con le macchine in autostrada. I B.S.S sono la band più eccitante da vedere dal vivo. E per questa affermazione siamo pronti a mettere la mano sul fuoco.

Bologna 25 Novembre 2004

Arriviamo al Covo che è ancora deserto. I ragazzi del locale si danno da fare, ma della band neanche l’ombra. Sono in ritardo, tanto per cambiare.
Passa quasi un’ora quando Nadine, la tour manager, si affaccia per avvertirmi che Kevin è pronto, se mi va di fare altre due chiacchiere.
Mi raggiunge mentre gli altri iniziano a provare e scherzando commenta il concerto della sera precedente:
“Cazzo, è stato incredibile, E sai cosa? Quando ti ho detto ieri che alla fine il pubblico è uguale in qualsiasi parte del mondo è una cazzata. Cioè: io sono un indie rocker e tu sei un indie rocker, si capisce dai maglioni che portiamo, dai nostri capelli, dalla luce che abbiamo negli occhi. Però è diverso: gli indie rocker americani guardano il concerto, partecipano e ti fanno sentire grande, gli spagnoli ed i tedeschi sono pazzi, anche se alla fine è la stessa solfa. Voi italiani invece, tutta un’altra storia, prendete energia e la rimandate indietro. È grandioso e poi volete toccarci. Ieri un sacco di persone ci davano pacche sulle spalle, ci abbracciavano… veramente strano. Però bello.”
Ride, mi guarda e poi si dirige verso il camerino senza dire una parola. Aveva semplicemente bisogno di un’altra birra.
Nel frattempo inizio a chiacchierare con Brendan Canning, che della ‘Grande Famiglia Scena Rotta’ è l’altra anima principale:
“Ieri è stato emozionante, semplicemente emozionante. È questa secondo me la parola migliore per definire il concerto e la musica, non solo la nostra in genere. Penso che si sprechino un casino di parole per definire questo e quello. Ne ho lette di tutti i colori sul nostro conto, spesso ci rido su e penso: ‘Siamo solo una normale indie band”. Ma poi forse una definizione ci può stare: siamo ‘emotional rock’, come dice sempre Kevin. È bellissimo, comunque, suonare in Italia. Siamo la novità qui, la gente viene a sentirci per la prima volta ed è divertente. Abbiamo deciso di fare il tour in questo momento perché era l’ultima possibilità, per un po’, di poter suonare dal vivo con questa band. Fra qualche mese, o l’anno prossimo, saranno tutti presi dai propri progetti solisti, per cui abbiamo deciso di interrompere le registrazioni e di partire. Penso che questa sia la migliore line-up con cui fare concerti e volevamo celebrarla con un tour in Europa, l’ultimo legato a ‘You Forgot It In People. Siamo eccitati dall’idea di tornare a casa e mettere mano alle registrazioni, ma nel frattempo ci godiamo il momento e questi concerti in paesi bellissimi. Ora come ora mi sento molto carico, provo le stesse sensazioni di quando registravamo il disco predente: sono teso, mi interrogo continuamente sulle decisioni che stiamo prendendo e se queste siano più o meno giuste e nonostante tutto mi sento bene. Convinto che quando chiuderemo la porta dello studio avremo in mano un altro bel disco. Nel frattempo continuiamo a fare le nostre cose. Ad agosto abbiamo scritto e registrato la colonna sonora per un film di Bruce McDonald, un regista canadese molto bravo. Non ne ricaveremo un album da questa cosa, però è stata un’esperienza che ci ha segnato molto e che prima o poi ci piacerebbe rivivere. Tornando all’oggi, siamo sorpresi veramente dell’accoglienza che stiamo ricevendo: noi non abbiamo canzoni che passano in radio, non abbiamo video che passano su MTV, ma la gente ci conosce e ci segue. Tutto grazie al passaparola ed al supporto della stampa e di internet. È come quando ero più piccolo e l’interesse che ora si ha per l’indie lo sia aveva per l’heavy metal. Era difficile trovare i dischi di Slayer, Celtic Frost ed altre cose del genere. C’è lo stesso tipo di vicinanza che il pubblico aveva con quel tipo di gruppi. Il pubblico è diverso in ogni paese, ma tutti abbiamo le stesso background e dopo i concerti finisce sempre che si parla con la gente di musica, libri, cinema. E tutti amiamo Cronenberg e David Lynch, tutti viviamo in maniera democratica ed è bello. Siamo solo un altro pezzo di una piccola rivoluzione”.

Ed eccoci, di nuovo: ‘rivoluzione’ è la parola chiave. Quella che più spesso esce dalla bocca dei Broken Social Scene. Ed anche Brendan vuole dire la sua:
“Noi abbiamo un bel seguito dalle nostre parti, e questo ci dà la carica per esprimere le nostre posizioni su questioni anche più grosse di noi. È un periodo veramente difficile, e per come la vedo io ognuno deve sbattersi per dire le proprie idee. Dimostrare che c’è un modo per resistere. In Canada abbiamo un sacco di amici, dai musicisti delle altre band a chi ha negozi di dischi e cose del genere, tutti cerchiamo diffondere un messaggio e lo facciamo aiutandoci a vicenda.
Forse è la fortuna di vivere in un posto come Toronto, un posto molto aperto e pieno di diverse culture, un po’ come se fosse la nostra piccola New York. Penso sia più difficile fare un discorso di questo tipo per quelli che invece si ritrovano ad essere nati in posti sperduti tra le montagne.
Anche in Italia credo sia così. Noi in questi giorni abbiamo parlato con chi ci è venuto a vedere e quasi sempre erano persone magnifiche. Poi pensandoci bene capisco che, invece, la maggior parte della gente è quella che alla musica non da attenzione e poi magari vota Berlusconi, la vostra piccola versione di Bush. È molto triste. Soprattutto in un posto bello come questo”.

Mentre Brendan finisce di parlare, riappare Kevin con la birra. Mi chiede di accendere il computer per vedere una delle foto che poi finirà su LosingToday. Tra una battuta e l’altra è gia tempo di concerto.
Anche meglio della sera prima, se possibile. Il gruppo appare più sciolto e Kevin si prende spesso il lusso di scherzare con il pubblico, finendo anche per esagerare. Ma il boato che accoglie KC Accidental è qualcosa che toglie il fiato. Qualcosa che al momento succede sempre e solo a Bologna. Al Covo, per la precisione.

Faenza 27 Novembre 2005

Lasciamo l’allegra combriccola per un giorno e la ritroviamo che è mattina presto dispersa tra gli stand del Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza.
Il primo che ci viene incontro è Brendan Canning: dopo i saluti di rito, andiamo insieme a spulciare il reparto reggae di un venditore di vinili.
Brandan prende in mano un vecchissimo album di Desmond Dekker, me lo consiglia ed inizia a raccontare cosa è accaduto la sera prima a Milano:
“Eravamo al Rainbow a suonare, e dopo sette pezzi ci hanno fatto smettere perché era prevista la discoteca, ma questa è solo la parte minore della storia. Ad un certo punto mentre eravamo lì che smontavamo e chiacchieravamo con la gente sono entrati nel locale una ventina di agenti di polizia.
C’era il locale circondato dalle macchine. Hanno sgomberato il posto e buttato fuori tutta la gente, in pratica abbiamo dovuto caricare il tour bus di corse e senza capire cosa stava succedendo. Penso ci sia dietro qualche storia di droga”.
Di tutto altro avviso Kevin:
“È stato allucinante. Tutti questi poliziotti, mai vista una cosa del genere ad un concerto. Secondo me è perché mezz’ora prima avevo insultato dal palco Berlusconi.”
Ride e scherza, come al solito. Nel caos della fiera di Faenza trovano anche il tempo per ritirare il premio come miglior indie band straniera dell’anno (grazie ai ragazzi di Freak Out), spulciare qualche altro vinile e ripartire alla volta di Rimini, dove terranno il penultimo dei cinque concerti italiani.
Giusto il tempo dei saluti e di qualche residuo di chiacchiera .
Brandan: “È difficile suonare in un gruppo del genere, ma anche molto divertente. Siamo in tantissimi ed è molto difficile gestire spazi piccolissimi come quelli del tour bus. Ci sono dei momenti in cui ognuno non ne può più dell’ altro e l’unica cosa che vuole fare e sedersi e mandare tutto all’aria. Poi però subentra il rispetto degli spazi altrui e le regole tipiche di convivenza che fanno sì che si riesca a riposarsi da tutto e a crearsi momenti di isolamento forzato. È difficile, ma è la chiave giusta per andare avanti.”
Gli fa eco Kevin Drew: “Se ti dicessi che questo tour sta andando bene mentirei. Certo, ogni sera i concerti vengono bene e c’è sempre un sacco di gente, ma umanamente sono ridotto uno straccio. Sono sempre malaticcio e questo mi fa vivere male il tutto. Siamo sempre appiccicati e non è facile vivere così. L’unico momento di privacy è quando dormo. Sul tour bus.
Solo che certe volte succede che sogno e nel mio sogno vedo gli altri che si aggirano intorno a me ed allora diventa un incubo. A parte gli scherzi: questa è una vita difficile. Lo so che può sembrare una frase del cazzo e che alla fine noi stiamo solo facendo quello che ci piace, ma ti giuro che non è semplice partire e lasciarsi alle spalle fidanzate, famiglie e amici. Sicuramente siamo contenti di vedere posti splendidi e di suonare ogni sera di fronte un pubblico diverso, ma è stancante e sinceramente non ne posso più. Grazie a Dio c’è l’amicizia. È quello che ci dà la forza e ci fa andare avanti. In questa band sono coinvolte quasi venticinque persone, quattordici in questo tour, e tra di noi c’è un legame speciale. Una forza nascosta che ci rende diversi da tutti gli altri. Se non ci volessimo così bene, probabilmente avremmo già smesso”.

Le porte del tour bus si aprono ed i Broken Social Scene ci salutano. Con la promessa di incontrarci presto. Magari con canzoni nuove da ascoltare.